7 domande per cambiare

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Utente 32323

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Mi soffermo su due ipotesi all'origine di questa discussione: cambiare vita non sarebbe né un sogno né una necessità. Come tradizione, le pongo in forma interrogativa; ciascuno potrà cercare la propria risposta.

1. Cambiare vita è un sogno?

Esiste indubbiamente chi lo ha fatto con soddisfazione di risultati. Chi lo ha fatto rinunciando ai mezzi economici è stato criticato per essere anacronistico. Chi lo ha fatto senza rinunciare ai mezzi economici è stato criticato per aver operato dei compromessi. Chi, in ogni caso e nonostante tutto, lo ha fatto ha scelto di non rinunciare a una parte significativa di sé e, soprattutto, ha trovato -- ha dovuto trovare -- il proprio modo di farlo.

2. Cambiare vita è necessario?

Deliberatamente questa discussione non è stata intitolata "7 domande per cambiare vita", ma "7 domande per cambiare". Mentre il celebre aforisma gattopardesco descriveva la necessità di cambiare tutto perché tutto potesse rimanere uguale, qui non si è esclusa la possibilità opposta: cambiare pur lasciando tutto uguale. L'unico vero cambio è quello di sé, ci viene ricordato da tradizioni molto distanti tra loro nel tempo e nello spazio eppure concordi nelle conclusioni.

È possibile che qualche forma di cambio esteriore agevoli il cambio interiore, attraverso condizioni che possono fare da catalizzatore, ma questo è tutt'altro che automatico, come dimostra la straordinaria capacità umana di portarsi appresso le proprie miserie in qualsivoglia contesto di vita.

Accade anche che una persona interiormente cambiata decida, in un secondo tempo, di intraprendere una vita più aderente alla propria nuova condizione interiore, e allora - in una luce del tutto nuova e ampiamente trascurata - possono venirle in aiuto considerazioni pratiche sul come concretizzare questo cambio.

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Ringrazio chi -- con la lettura o con l'intervento -- sta prendendo parte a questa conversazione. Un grazie particolare a chi ha espresso opinioni discordi, perché è nel dialogo che -- dal tempo di Platone -- l'Occidente ha riconosciuto il proprio strumento preferenziale di conoscenza.
 
Il discorso del "cambiamento umano" è, com'è ovvio, estremamente sfaccettato e complesso, perchè sfaccettato e complesso è l'essere umano e dunque bisognerebbe innanzitutto specificare "a cosa" si riferisca tale cambiamento.
L'aspetto più immediato che viene in mente sono le idee (in senso ampio: valori, pensieri, opinioni, concezione di vita), ed allora già soltanto questo conduce a due approcci contrapposti: chi ritiene - sicuramente io da sempre tra questi - che mantenere nel tempo le proprie idee e valori sia un segno di coerenza, cioè l'espressione tangibile di quel concetto apparentemente inafferrabile che è lo "stile di vita", e chi all'opposto si rifà alla consueta frase tranchant secondo cui "soltanto i cretini non cambiano mai idea". Come si vede, il cambiamento può essere visto da alcuni i termini negativi - adeguamento opportunistico alle circostanze della vita e del mondo, sintetizzato nel detto "si nasce incendiari e si muore pompieri" a indicare il progressivo smorzamento delle idealità di vita - e da altri, viceversa, come l'espressione assolutamente positiva di quella che è la vera natura umana, l'abbraccio del nuovo, il rifiuto di fossilizzarsi, il presupposto di ogni progresso, ambizione, obiettivo personale (e, a cascata, sociale). In effetti, riflettendoci un attimo, già su questo terreno si tratta di trovare un difficile punto di sintesi ed equilibrio perchè entrambi gli approcci, se interpretati in modo radicale e spinti all'estremo, conducono ad approdi non proprio esaltanti: in un caso, il disadattamento (la progressiva incapacità di "comprendere" il mondo/gli altri e di "esserne compresi": come procedere su due binari che si vanno via via divaricando); nell'altro caso, la legittimazione del "cambiamento di idee" inteso nel modo più deteriore, ossia dell'essere una banderuola, un voltagabbana, una girandola che si volta là dove gira e soffia il vento del momento: un vento fatto di opportunismi, mode, pensieri dominanti.

A mio avviso è allora necessario andare al di là di questa impostazione che in fondo rappresenta solo la parte epidermica del concetto di "cambiamento".
E notare come in fondo la prima domanda da porsi dovrebbe essere "perchè vorrei cambiare" : il "cosa" cambiare (cioè l'oggetto) ne consegue. Si vorrebbe cambiare "se stessi", o la propria vita ? Le proprie idee o le proprie azioni ? Si vorrebbe cambiare la propria identità o, invece, trovare il modo di esplicarla, rispettarla, valorizzarla, in una parola "realizzarla" ?
Riporto qui un brano di una delle tante e-mail che nel tempo, nel corso degli anni, mi sono scambiato con Andrea (Andrea DB, l'admin del sito): lo riporto integralmente perchè secondo me coglie nel modo più acuto e genuino un punto cruciale. Ossia il fatto che il cambiamento NON significa rinnegare nulla, assolutamente nulla di ciò che si è stati fino a quel momento, anzi: sembra un paradosso, ma proprio ciò che siamo "diventati" è il presupposto che ci fa avvertire la necessità di cambiare:
"Pur con i suoi difetti, fondamentalmente Andrea (me stesso) mi piace e quello che è Andrea adesso dipende anche dalla sua storia, da quello che ha fatto, da quello in cui credeva, dalle persone che ha incrociato nella sua vita, dalle esperienze belle o brutte che siano. Non rimpiango nulla di tutto questo, semplicemente perché non ha alcun senso, anzi sarei schizofrenico se lo facessi. Vorrebbe dire che inseguo un'idea di Andrea irraggiungibile perché, se pur lentamente, tutti mutiamo (per non farlo nel corpo dovremmo stare allo zero assoluto, ovvero -273,15°C, per non farlo nella mente dovremmo essere morti, ma di questo non sono così sicuro, non farlo per lo spirito è impossibile per definizione) e con noi mutano i nostri desideri che dipendono dalla nostra storia, per cui è assurdo rimpiangere una parte passata di se che in qualche modo ha contribuito a generare i propri desideri attuali".
Sottolineo in particolare le ultime due righe: "E con noi mutano i nostri desideri che dipendono dalla nostra storia, per cui è assurdo rimpiangere una parte passata di sè che in qualche modo ha contribuito a generare i propri desideri attuali". Mi limiterei soltanto ad aggiungere che. analogamente a come è assurdo "rimpiangere", sarebbe altrettanto assurdo "rinnegarla" o disprezzarla. Semplicemente, noi in qualsiasi momento "siamo" qualcosa; questo qualcosa è il frutto di ciò che "siamo stati" fino a quel momento; e il desiderio di cambiare deriva proprio da questo. Se "non" fossimo questo, "non" sentiremmo quel desiderio di cambiamento: sono due aspetti indissolubili.
Arrivo così a quella che io ritengo essere la vera sintesi ed essenza del cambiamento: il cambiamento è semplicemente un innato "divenire" che è in noi che avviene sempre e comunque, indipendentente dalla nostra volontà perchè è un processo fisiologico che sfugge al "governo" della ragione ma obbedisce a un istinto. E quella che inquadrata nei termini descritti all'inizio appariva una contrapposizione, in realtà neppure si pone, o meglio si pone in termini del tutto diversi: si tratta cioè soltanto di stabilire se noi cambiamo adattandoci a ciò che sta fuori di noi, oppure a ciò che sta dentro di noi. Tutto qui.
A tal proposito riporto qui un brano del libro che - come accennato in altro post - sto terminando di leggere in questi giorni, tratto da un capitolo il cui titolo è già più che esplicativo: "Diventate voi stessi".
"Non so quanti di voi abbiano letto il libro di Saint Exupery intitolato <Vento, sabbia e stelle>. Se non l'avete letto, posso suggerirvelo con tutto il cuore? E' bellissimo, e diventa sempre più fantastico con il passare degli anni. In <Vento, sabbia e stelle> c'è un capitolo in cui, senza definirlo, Saint-Exupery parla dell'amore come nessuno ne aveva mai parlato...in termini semplici, infantili. Dice: <Forse l'amore è il processo con il quale ti riconduco dolcemente a te stesso>. Ho sempre esitato a definire l'amore perchè io lo vedo come qualcosa di sconfinato, e via via che voi diventate più grandi e più belli spiritualmente e più espansivi, lo diventa anche l'amore. Quindi non mi sembra giusto circoscriverlo in una definizione. Ma la definizione di Saint-Exupery mi piace; credo che l'insegnamento sia questo...un processo nel quale io non voglio trasformarti a mia immagine, come desidererei, ma voglio ricondurti a te stesso, a ciò che sei, alla tua unicità, alla tua bellezza originaria. Moltissimi cercano di farci diventare ciò che vogliono; dopo un po' ci arrendiamo e concludiamo che forse è questo che viene chiamato <adattamento>. Il cielo non voglia ! Qualche volta qualcuno si ribella e dice: <No! Non voglio diventare quello che vuoi tu. Io sono così e così resterò. Io voglio diventare ciò che sono>. A volte mi domando: per quanto ci ribelliamo, siamo veramente ciò che siamo, o siamo soltanto ciò che ci dicono che siamo? (...) L'affermazione di Saint-Exupery, l'idea di ricondurvi a voi stessi, è bellissima; ma per lasciarvi ricondurre a voi stessi dovete decidere, in una certa misura, che cosa vi piacerebbe diventare. Vi assicuro che, se vi dedicherete alla scoperta di ciò che siete, sarà il viaggio più esaltante che abbiate mai fatto in vita vostra. (...) Tutto qui. E' la liberazione di qualcosa che c'è già. La conferma che per voi è giusto essere voi stessi. E' dare a voi stessi il permesso di essere e di progredire. Non è incredibile dover aspettare che qualcuno ci dica che è giusto essere se stessi ? (...) Io sono convinto che voi dominiate il vostro destino e che possiate essere ciò che volete".

Ho messo in risalto quelli che secondo me sono i punti salienti.
Spesso il desiderio di "cambiare vita" nasce dal ripudio di ciò che è fuori di noi, nel senso più ampio: "gli altri" (con i loro valori, o meglio dis-valori, ed i loro comportamenti) ; la società ed il mondo, con le loro regole fisse scritte e non scritte, i loro processi fluidi visibili e sotterranei (logiche, dinamiche, strutture e sovrastrutture). Questo ci convince che dovremmo "cambiare noi". E che l'unico modo per cambiare noi sia abbandonare volenti o nolenti quel brodo di coltura in cui anche noi nuotiamo: in una parola, rifuggirlo. La ribellione, in sè, sembra la soluzione. Al massimo un anticonformismo fine a se stesso (e molte volte alquanto "selettivo": escludente ciò che - banalmente e prosaicamente - torna comunque comodo).
Ma se il problema fosse tutto qui, sarebbe di fatto un non-problema. Basterebbe diventare dei "bastian contrari", come del resto molti fanno approdando a una contrapposizione velleitaria e sterile. Tipo quella - per capirsi restando sull'attualità - di tanti no vax.
Rimarrebbe irrisolto il vero problema che consiste nel rispondere alla domanda (vista sopra): fuggire sì, ma per diventare cosa ? Se non abbiamo chiaro questo, o perlomeno se non lo indaghiamo, se non ce lo domandiamo, se non lo cerchiamo prima, qualsiasi tipo di fuga equivarrà ad anteporre e ad invertire sequenzialmente un atto che, in sè e per sè, resterà privo di senso, vuoto. Servirebbe solo a traslocare da una "sopravvivenza" ad un'altra, con forme diverse. Per fare un esempio banale e concreto: un po' come agognare la pensione per poi scoprire, solo una volta che ci si è andati, di non sapere cosa fare del proprio tempo e come riempirlo. Non è affatto rara una situazione del genere: anzi, capita a tantissimi.
Cambiare, dunque, altro non è che scoprire e giungere a ciò che già si è, abbandonando ciò che non siamo, ciò che crediamo di essere: e sta qui la sintesi tra "coerenza" e "cambiamento".
E questo non significa necessariamente "abbandonare il mondo". Tantomeno fisicamente.

Questo preciso concetto è colto in un famosissimo passo di Seneca, contenuto nella ventottesima epistola delle sue "Lettere a Lucilio". Quest'ultimo, un romano del primo secolo, scriveva all’amico Seneca e si diceva stupito del fatto che i suoi viaggi non gli fossero serviti per eliminare la tristezza che lo affligge. Seneca gli risponde: <Credi che questo sia capitato soltanto a te e ti meravigli come di una cosa straordinaria che, nonostante le tue peregrinazioni così lunghe e tanti cambiamenti di località, non ti sei scrollato di dosso la tristezza e il peso che opprimono la tua mente? Devi cambiare d’animo, non di cielo. Puoi anche attraversare il mare, terre e città retrocedano pure, come dice il nostro Virgilio: ebbene, i tuoi difetti ti seguiranno ovunque andrai.
A un tale che esprimeva questa stessa lamentela Socrate disse: <Perché ti stupisci, se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso? Ti incalza il medesimo motivo che ti ha spinto fuori di casa, lontano>. A che può giovare vedere nuovi paesi? A che serve conoscere città e luoghi diversi? E’ uno sballottamento che sfocia nel vuoto. Domandi come mai questa fuga non ti è utile? Tu fuggi con te stesso. Devi deporre il fardello che grava sul tuo animo, altrimenti non ti piacerà alcun luogo".


Ora, posso ragionevolmente attendermi che detta così sembra un discorso filosofico-teorico, ma in realtà ci sono moltissimi aspetti traducibili sul pratico anche se ciò spalancherebbe un altro interminabile discorso: sul quale probabilmente molti si troverebbero in disaccordo ma che - forse proprio per questo - risulterebbe fertile e proficuo.
 
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Utente 32323

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Grazie, @Henry Thoreau ; intervengo con esitazione per lasciare spazio alla tua riflessione. Anche io rimango in ascolto, @C2C7 ; il tuo proposito mi mette inevitabilmente in risonanza.

***​

Si cercano un luogo di ritiro, campagne, lidi marini e monti; e anche tu sei solito desiderare fortemente un simile isolamento. Ma tutto questo è proprio di chi non ha la minima istruzione filosofica, visto che è possibile, in qualunque momento lo desideri, ritirarti in te stesso; perché un uomo non può ritirarsi in un luogo più quieto o indisturbato della propria anima, soprattutto chi ha, dentro, principî tali che gli basta affondarvi lo sguardo per raggiungere sùbito il pieno benessere: e per benessere non intendo altro che il giusto ordine interiore. Quindi concediti continuamente questo ritiro e rinnova te stesso.

Marco Aurelio, "A se stesso", II sec.​
 
U

Utente 32323

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In momenti diversi della riflessione su un possibile cambio di vita, ho trovato utile:

• immaginare una giornata tipo;
• percorrerla nei dettagli;
• viverla, simularla.

Forse non è un caso che nella tradizione cristiana - che ha riflettuto e sperimentato su questi temi per due millenni - a chi desidera essere formalmente riconosciuto come eremita è chiesto di redigere due brevi documenti: forma di vita (o regola) e orario. Nella prima l'eremita definisce le proprie intenzioni e priorità, nel secondo dà loro concretezza. È l'orario, più dei buoni propositi, a fare da timone attraverso le inevitabili tempeste e gli anni.

Tre casi concreti.

***​

1. Qual è la mia giornata ideale?

Mi è chiaro come voglio spendere il mio tempo? dico di sì, ma se veramente lo fosse, già starei facendone ottimo uso ricavandone profonda felicità.

Posso trovare tempo senza stravolgere la mia vita? se ne è già parlato in altro contesto; aggiungo un esempio.

Londra. Osservando nel dettaglio come trascorrevo le mie giornate, chiarendo a me stesso come intendevo spenderle, nel corso degli anni ridussi progressivamente le attività indesiderate, le distrazioni e le ore di lavoro, fino a quando non rimaneva ulteriore margine di manovra. Solo a quel punto per andare oltre sarebbe stato necessario un cambio radicale, i cui presupposti erano già stati gettati.

2. Quale sarà la mia giornata reale?

Quali effetti avrà il cambio di circostanze materiali (luogo, risorse) sul mio tempo?

Per capirlo, visualizzo l'intera giornata, gesto dopo gesto, dal risveglio alla notte.

Può accadere che nel nuovo contesto si rendano necessarie nuove attività che forse considero secondarie rispetto agli obiettivi principali (taglio del bosco) o addirittura indesiderate (cibarmi di alimenti che evitavo). Può poi accadere che attività prima molto semplici richiedano ora più tempo e fatica (ore per raggiungere il supermercato), di fatto riducendo -- anche in modo significativo -- il tempo disponibile per le attività principali, quelle che giustificano il cambio.

Il cambio di vita rimane una risposta adeguata? È possibile riconfigurare le attività secondarie come parte di quelle principali? (spaccare legna come meditazione)

Un racconto didattico che ascoltai in India. Un sannyasi (solitario) viveva da tempo nella giungla. Stanco dei topi, decise di tenere con sé un gatto. Per dare latte al gatto comprò una vacca. Per curare la vacca chiamò un contadino. Improvvisamente non era più solo.

3. Come comunico le mie scelte?

Illustrare come trascorro la giornata in concreto -- nelle sue varianti stagionali -- può aiutare ed escludere il rischio di immaginarla vagamente disimpegnata.

Due amici intendevano unirsi a me nel cambio di vita. Il primo si propose quando appena iniziavo a progettare il cambio, il secondo a cose fatte, dopo avermi fatto visita in montagna. In entrambi i casi si trattava di persone con cui avevo già vissuto, persone con esperienza in circostanze materiali proibitive. Quando si trattò di dire l'ultima parola, pensai per scrupolo di percorrere insieme a loro, gesto dopo gesto, la giornata tipo. Alla fine di quella conversazione entrambi cambiarono idea.

Mi resi conto che può essere difficile visualizzare qualcosa che non stiamo vivendo in prima persona, e che averlo osservato per un breve periodo non ne chiarisce necessariamente le dinamiche di lungo termine.
 
Un racconto didattico che ascoltai in India. Un sannyasi (solitario) viveva da tempo nella giungla. Stanco dei topi, decise di tenere con sé un gatto. Per dare latte al gatto comprò una vacca. Per curare la vacca chiamò un contadino. Improvvisamente non era più solo.
Per la ricerca della solitudine funziona in modo "relativamente semplice". Più difficile è quando la ricerca è versi la relazione.

Un aspirante eremita può provare a visualizzare il suo futuro, di cui essendo solo potrà avere un certo controllo. Serve soprattutto spietata lucidità e onestà con se stessi.
Diverso è il dilemma di Robinson Crusoe, che - se desidera tornare alle relazioni ampie di prima - deve decidere se lasciare l'unica relazione che ha con Venerdi e rischiare tutto su una zattera. Potrà ottenere tutto o perdere anche il poco che ha. Potrebbe finire a naufragare su un'altra isola deserta, senza nemmeno Venerdì. Non ne ha controllo, può solo scegliere se provarci.
 
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Utente 32323

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Credo che anche il solitario si confronti con il dilemma di Crusoe: lasciare il noto (i condizionamenti, il vecchio sé) nel desiderio di creare una relazione più vera e inclusiva con il mondo. La solitudine non è il suo fine, ma un mezzo di incontro.

Un monaco mi raccontò la sua storia. Dopo anni di richieste, un giorno ottenne finalmente il permesso di lasciare la clausura per condurre una esperienza di vita eremitica, che da sempre lo affascinava. Crollò dopo cinque mesi, fece ritorno al monastero e iniziò a frequentare lo psicologo.

Forse questo ci ricorda - come fai anche tu, @C2C7, e spero di non fraintenderti - che, per quanto preparati, il cammino rimane perlopiù incerto e imprevedibile. Questo non esclude il ruolo della preparazione, come sa ogni esploratore.
 
U

Utente 32323

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Bosco e incendi - promemoria*.

Mantenere una radura attorno all'abitazione, eliminando gli alberi e tagliando il prato un paio di volte l'anno, è una pratica che vale la fatica.

Piccoli falò per eliminare la ramatura in eccesso: meglio in giorni piovosi e dove il prato è stato tagliato. Il comune consente l'operazione in giorni specifici, che sono un paio a settimana.

*​

[Ieri sera fiamme a 1km da casa, più in alto su questo stesso fianco di montagna. Nel buio della mattina se ne vedeva la luce calda mentre il profumo di legna arsa riempiva l'aria gelida. Due elicotteri hanno fatto la spola per sette ore, terminando il lavoro questo pomeriggio. Due giorni fa un altro incendio a una decina di km. Gli alberi più vetusti in genere sopravvivono e il bosco si rigenera a una velocità incredibile. Gli anziani raccontano che quando il bosco era una risorsa, e per questo veniva tenuto pulito come il palmo di una mano, gli incendi erano rari.]

* Un accenno qui, essendo frequente che ruderi, capanni e rustici siano stati inghiottiti dal bosco.
 
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Utente 32323

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Quanta area serve?

0.5 ha bosco;
0.1 ha prato;
12 mq abitazione.

(fabbisogno minimo indicativo per cucinare e riscaldare una stanza tradizionale in pietra non oltre 13-15C; regione alpina fino a 1000m slm)

*​

La Storia non è solo un incubo - lo può essere, lo è stata -, ma anche una consolazione: una terra da riscoprire e in cui trovare possibilità di vie di uscita dal nostro presente già sperimentate con successo

Vita nelle Prealpi bresciane.

Fino a cinquant'anni fa, fuori dai centri abitati tra 500 e 1000m slm, la casa in pietra misurava mediamente 40mq, divisi in quattro stanze (cucina, cantina, due camere) su due piani. Ci viveva in affitto un nucleo famigliare di circa dieci persone. Affiancati alla casa si trovavano stalla e fienile. Il prato costituiva la risorsa principale e forniva fieno per il bestiame (metà rendita - da cui mezzadria - spettava al proprietario come affitto), mentre il bosco rimaneva al proprietario che vi ricavava carbone da commercializzare. La disponibilità di legna - ricavata da qualche arbusto ai margini del prato - era ridottissima e riservata alla cucina (pasti e caseificazione). L'ampio focolare aperto (doveva ospitare il paiolo) fu affiancato da una stufa solo dopo il periodo in questione quando, abbandonata l'economia di sussistenza, queste abitazioni iniziavano a diventare seconde case per l'ultima generazione che vi era nata e che, con gli stipendi di miniera e fabbrica, riusciva finalmente ad acquistare l'immobile dopo averlo affittato per generazioni.

Bosco e autosufficienza.

Nel mio caso, a 800m slm su un fianco di montagna che per tre mesi non riceve sole (equivalente a 1100m slm), ho visto temperature di -15C. Attorno alla casa, il bosco ceduo è costituito per il 60% da castagno, 15% nocciolo, 15% frassino, 10% altro (ontano, salice, corniolo, abete, carpino, pioppo, betulla, sorbo, tiglio).

Chi ha del faggio preferisce spesso venderlo e tenere per sé la legna di minor valore. Le essenze meno pregiate crescono più velocemente, arrivando a maturazione in 7 anni (salice), 12 anni (castagno), 15 anni (nocciolo). La maggior produzione compensa la minor resa. Dunque la composizione del bosco non è un fattore determinante nella fase di ricerca di una proprietà.

Osservando buone pratiche di gestione, il bosco si ristabilisce molto velocemente dal taglio e si mantiene sano, longevo e percorribile. Sano per la riduzione di legname vecchio e malato e delle foglie secche che alimentano gli incendi. Longevo perché la gestione a ceppaia, per le essenze adatte, ne prolunga anche del 50% l'età massima. Percorribile perché gli alberi non raggiungono dimensioni tali da cadere a terra, sradicati dal vento o sotto il proprio peso, creando crateri e quel groviglio di tronchi, rami e rovi che determina la perdita dell'antica rete di sentieri per abbandono. Tradizionalmente, il bosco veniva tagliato in cicli di 12 anni. Senza disponibilità di macchinari per il trasporto e la lavorazione della legna, il taglio di un bosco giovane (15-20 anni) è molto più agevole.

Bosco e prato sono oggi considerati un onere più che una risorsa, con conseguente incremento della superficie boschiva italiana: negli ultimi 80 anni questa è cresciuta di circa il 75%, con riduzione dei prati e perdita di biodiversità associata.

Determinanti sono accessibilità e posizione del bosco: a monte della casa, agevola il trasporto della legna; a valle o distante, richiede il ricorso al trattore, magari coinvolgendo un vicino che ne è provvisto, in cambio di parte del carico. Nel caso del taglio di bosco altrui, la pratica comune in queste zone è di lasciare al proprietario un quarto della legna (già lavorata) come corrispettivo.

Il taglio del bosco è regolato dalla normativa regionale e locale, che prevede la richiesta di un permesso. Qui, il permesso è rilasciato gratuitamente dalla Comunità Montana e ha validità biennale.

Da mezzo ettaro di bosco ceduo si possono ricavare ogni anno in modo sostenibile nel tempo i 40-50q c.ca di legna necessari per una vita di 'sussistenza'.

Un orto di montagna di 60mq non permette l'autosufficienza, ma - sommandosi al resto delle attività, specialmente se si è soli a svolgerle - potrebbe equivalere all'impegno massimo desiderato. Meglio se posizionato a valle della fonte di approvvigionamento idrico. Alleggerisce la spesa alimentare tra giugno e novembre; qualcosa può essere conservato per l'inverno, mentre da marzo a maggio suppliscono le erbe selvatiche (se il prato è tagliato regolarmente).

Con poco impegno, si possono aggiungere un campo di patate di area equivalente e qualche albero da frutto su cui non fare troppo affidamento (gelate tardive). Funghi e piccoli frutti del bosco costituiscono una modesta e occasionale integrazione nutrizionale dal trascurabile apporto calorico. In queste zone, anche nelle località più remote e impervie, tutti i boschi sono di proprietà: per la raccolta di prodotti è buona norma chiedere il permesso del proprietario. Sono invece demaniali molti pascoli di alta quota.

Le normative regionali consentono piccole forme di allevamento su scala domestica previa registrazione di un codice stalla. Con numero di animali limitato dalla legge (1 vacca, 5 ovini, etc.), gli obblighi burocratici e veterinari sono minimi. Polli e conigli richiedono poco impegno; con capre e pecore bisogna disporre di ricoveri adeguati, sufficiente prato e un fienile, e mettere in conto qualche visita del veterinario; una vacca equivale a un lavoro part-time. Esiste una normativa agevolata per il commercio di piccole quantità di miele, tenendo presente che l'apicoltura richiede un investimento iniziale non trascurabile (€4k c.ca).

M.Rizzante, "L'arte segreta di diventare umani"; in L.Mumford, "Le trasformazioni dell'uomo", 2021.
 
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Utente 32323

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[...] da sempre l'isolamento è la prima delle cause di arretratezza mentale e culturale, sia per gli individui, sia per popolazioni intere. [...]
[...] Spesso il desiderio di "cambiare vita" nasce dal ripudio di ciò che è fuori di noi, nel senso più ampio: "gli altri" (con i loro valori, o meglio dis-valori, ed i loro comportamenti) ; la società ed il mondo, con le loro regole fisse scritte e non scritte [...].
[...] quando la ricerca è versi la relazione. [...]

La categoria del singolo individuo è sempre stata sospettata di essere in qualche modo 'asociale', 'egomane' o perfino 'antiumana', una specie di relitto selvaggio che si è opposto e si oppone all'incivilimento. In realtà è vero il contrario. Il singolo individuo garantisce una forma di vita che va finalmente oltre l'arcaica esistenza massificata dell'identità di clan o di gruppo, muovendosi nella direzione della libertà, autonomia e responsabilità; è proprio per la prima volta nell'esistenza dell'individuo che c'è un qualcosa di simile a una 'coscienza', che è più della paura sociale ancorata nel Super-Io, più del puro e semplice timore dell'espulsione dal gruppo nel caso della trasgressione di determinate norme sociali [...].

Ma già al di sotto di ogni forma di esistenza portata all'estremo, l'isolamento in senso stretto rappresenta la base di ogni conquista autenticamente umana. Non importa se filosofo, poeta, musicista o pittore -- chiunque abbia qualcosa da 'dire' agli altri non può che parlare come singolo individuo, non come autorità, non come funzionario, non come avvocato di altri.

E.Drewermann, C'è speranza per la fede?, 2002.
 
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C'è qualcosa di infferrabile per me in questo thread. Che non parla di montagna, escursioni o avventura, eppure è assolutamente al suo posto in questo forum. Che indaga la ricerca attraversa la solitudine parlando ad un cerchio di persone spesso invisibili. Sembra una grande contraddizione, non credo lo sia.
Amo camminare da solo. Anche percorsi di più giorni, in zone a me sconosciute e relativamente isolate. Sento un senso di libertà e comunione con il bosco, tornando a casa mi sento di essere stato tutto il giorno “tra amici”. Eppure patisco molto la solitudine e cerco spesso compagni di avventura. Credo sia qualcosa di simile alla ricerca del silenzio di chi vuole comprendere per poter poi comunicare. Accucciarsi per poi saltare.
 
Nel bosco io cerco proprio la solitudine,
Siamo esseri sociali e soffriamo la solitudine ... ma oggi la solitudine è cosa così difficile
che diventa preziosa.... molto preziosa.

Il fatto è che non siamo mai realmente soli, anche nel profondo isolamento selvaggio
siamo connessi ad altre persone, connessi tramite doveri responsabilità o solo affetto.

Connessioni che non ci lasciano mai completamente liberi ... eppure cercando la solitudine
è proprio la libertà che si va cercando, la libertà più profonda consapevoli del fatto
che la propria libertà termina dove inizia quella altrui.

In fondo mi manca il sentirmi libero ..di poter anche morire,
ma non desidero morire ..... contraddizioni dell'essere umani.
 
Vivendo 5 giorni su 7 in città, per me la foresta è l'unico posto dove mi sento vivo, dove mi sento umano e non robot, dove gli istinti animali prendono vita, istinti che le città cercano di uccidere.
 
U

Utente 31770

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Sto affrontando da 7 mesi un percorso di cambiamento radicale della mia vita e del mio approccio generale a praticamente tutto e posso dirvi che, per quanto le tentazioni dell' uomo moderno siano molteplici ed infide all' inverosimile, le discriminati che fanno la differenza sono forza di volontà e resilienza.
A tratti sono ricaduto in vecchie tentazioni che sto cercando di eliminare (che non sono tentazioni gravi fortunatamente), e forza di volontà e resilienza, ogni volta, mi danno la forza di tirarmi fuori dal fango delle tentazioni, non importa quanto alto sia.
Per ogni domanda che ci poniamo sulla nostra vita e sui cambiamenti che dovremmo apportare, conosciamo già la risposta. Tutto sta nell' avere il coraggio e la forza interiore di accogliere ed accettare queste risposte, perché queste sono il nostro vero io che sta cercando di uscire, ma è bloccato da tutto quel che la società moderna e tutti i finti credo ci hanno inculcato fin da piccoli.
Mi piace definirmi un seminomade: mi piace stare fermo in un luogo per un tot di tempo, poi però sento la necessità di cambiare per fare sempre nuove esperienze. Forse questa mia peculiarità mi sta aiutando in questo cambiamento (perché non sono mai stato legato a quasi niente di fisso e materiale che infonde sicurezza, tipo la casa) ma sono sicuro che anche chi ha uno stile di vita sedentario, come la maggior parte delle person, può cambiare. Basta volerlo davvero e con tutto se stessi e le cose cambieranno, fidatevi.
 
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