Il discorso del "cambiamento umano" è, com'è ovvio, estremamente sfaccettato e complesso, perchè sfaccettato e complesso è l'essere umano e dunque bisognerebbe innanzitutto specificare "a cosa" si riferisca tale cambiamento.
L'aspetto più immediato che viene in mente sono le idee (in senso ampio: valori, pensieri, opinioni, concezione di vita), ed allora già soltanto questo conduce a due approcci contrapposti: chi ritiene - sicuramente io da sempre tra questi - che mantenere nel tempo le proprie idee e valori sia un segno di coerenza, cioè l'espressione tangibile di quel concetto apparentemente inafferrabile che è lo "stile di vita", e chi all'opposto si rifà alla consueta frase tranchant secondo cui "soltanto i cretini non cambiano mai idea". Come si vede, il cambiamento può essere visto da alcuni i termini negativi - adeguamento opportunistico alle circostanze della vita e del mondo, sintetizzato nel detto "si nasce incendiari e si muore pompieri" a indicare il progressivo smorzamento delle idealità di vita - e da altri, viceversa, come l'espressione assolutamente positiva di quella che è la vera natura umana, l'abbraccio del nuovo, il rifiuto di fossilizzarsi, il presupposto di ogni progresso, ambizione, obiettivo personale (e, a cascata, sociale). In effetti, riflettendoci un attimo, già su questo terreno si tratta di trovare un difficile punto di sintesi ed equilibrio perchè entrambi gli approcci, se interpretati in modo radicale e spinti all'estremo, conducono ad approdi non proprio esaltanti: in un caso, il disadattamento (la progressiva incapacità di "comprendere" il mondo/gli altri e di "esserne compresi": come procedere su due binari che si vanno via via divaricando); nell'altro caso, la legittimazione del "cambiamento di idee" inteso nel modo più deteriore, ossia dell'essere una banderuola, un voltagabbana, una girandola che si volta là dove gira e soffia il vento del momento: un vento fatto di opportunismi, mode, pensieri dominanti.
A mio avviso è allora necessario andare al di là di questa impostazione che in fondo rappresenta solo la parte epidermica del concetto di "cambiamento".
E notare come in fondo la prima domanda da porsi dovrebbe essere "perchè vorrei cambiare" : il "cosa" cambiare (cioè l'oggetto) ne consegue. Si vorrebbe cambiare "se stessi", o la propria vita ? Le proprie idee o le proprie azioni ? Si vorrebbe cambiare la propria identità o, invece, trovare il modo di esplicarla, rispettarla, valorizzarla, in una parola "realizzarla" ?
Riporto qui un brano di una delle tante e-mail che nel tempo, nel corso degli anni, mi sono scambiato con Andrea (Andrea DB, l'admin del sito): lo riporto integralmente perchè secondo me coglie nel modo più acuto e genuino un punto cruciale. Ossia il fatto che il cambiamento NON significa rinnegare nulla, assolutamente nulla di ciò che si è stati fino a quel momento, anzi: sembra un paradosso, ma proprio ciò che siamo "diventati" è il presupposto che ci fa avvertire la necessità di cambiare:
"Pur con i suoi difetti, fondamentalmente Andrea (me stesso) mi piace e quello che è Andrea adesso dipende anche dalla sua storia, da quello che ha fatto, da quello in cui credeva, dalle persone che ha incrociato nella sua vita, dalle esperienze belle o brutte che siano. Non rimpiango nulla di tutto questo, semplicemente perché non ha alcun senso, anzi sarei schizofrenico se lo facessi. Vorrebbe dire che inseguo un'idea di Andrea irraggiungibile perché, se pur lentamente, tutti mutiamo (per non farlo nel corpo dovremmo stare allo zero assoluto, ovvero -273,15°C, per non farlo nella mente dovremmo essere morti, ma di questo non sono così sicuro, non farlo per lo spirito è impossibile per definizione) e con noi mutano i nostri desideri che dipendono dalla nostra storia, per cui è assurdo rimpiangere una parte passata di se che in qualche modo ha contribuito a generare i propri desideri attuali".
Sottolineo in particolare le ultime due righe: "E con noi mutano i nostri desideri che dipendono dalla nostra storia, per cui è assurdo rimpiangere una parte passata di sè che in qualche modo ha contribuito a generare i propri desideri attuali". Mi limiterei soltanto ad aggiungere che. analogamente a come è assurdo "rimpiangere", sarebbe altrettanto assurdo "rinnegarla" o disprezzarla. Semplicemente, noi in qualsiasi momento "siamo" qualcosa; questo qualcosa è il frutto di ciò che "siamo stati" fino a quel momento; e il desiderio di cambiare deriva proprio da questo. Se "non" fossimo questo, "non" sentiremmo quel desiderio di cambiamento: sono due aspetti indissolubili.
Arrivo così a quella che io ritengo essere la vera sintesi ed essenza del cambiamento: il cambiamento è semplicemente un innato "divenire" che è in noi che avviene sempre e comunque, indipendentente dalla nostra volontà perchè è un processo fisiologico che sfugge al "governo" della ragione ma obbedisce a un istinto. E quella che inquadrata nei termini descritti all'inizio appariva una contrapposizione, in realtà neppure si pone, o meglio si pone in termini del tutto diversi: si tratta cioè soltanto di stabilire se noi cambiamo adattandoci a ciò che sta fuori di noi, oppure a ciò che sta dentro di noi. Tutto qui.
A tal proposito riporto qui un brano del libro che - come accennato in altro post - sto terminando di leggere in questi giorni, tratto da un capitolo il cui titolo è già più che esplicativo: "Diventate voi stessi".
"Non so quanti di voi abbiano letto il libro di Saint Exupery intitolato <Vento, sabbia e stelle>. Se non l'avete letto, posso suggerirvelo con tutto il cuore? E' bellissimo, e diventa sempre più fantastico con il passare degli anni. In <Vento, sabbia e stelle> c'è un capitolo in cui, senza definirlo, Saint-Exupery parla dell'amore come nessuno ne aveva mai parlato...in termini semplici, infantili. Dice: <Forse l'amore è il processo con il quale ti riconduco dolcemente a te stesso>. Ho sempre esitato a definire l'amore perchè io lo vedo come qualcosa di sconfinato, e via via che voi diventate più grandi e più belli spiritualmente e più espansivi, lo diventa anche l'amore. Quindi non mi sembra giusto circoscriverlo in una definizione. Ma la definizione di Saint-Exupery mi piace; credo che l'insegnamento sia questo...un processo nel quale io non voglio trasformarti a mia immagine, come desidererei, ma voglio ricondurti a te stesso, a ciò che sei, alla tua unicità, alla tua bellezza originaria. Moltissimi cercano di farci diventare ciò che vogliono; dopo un po' ci arrendiamo e concludiamo che forse è questo che viene chiamato <adattamento>. Il cielo non voglia ! Qualche volta qualcuno si ribella e dice: <No! Non voglio diventare quello che vuoi tu. Io sono così e così resterò. Io voglio diventare ciò che sono>. A volte mi domando: per quanto ci ribelliamo, siamo veramente ciò che siamo, o siamo soltanto ciò che ci dicono che siamo? (...) L'affermazione di Saint-Exupery, l'idea di ricondurvi a voi stessi, è bellissima; ma per lasciarvi ricondurre a voi stessi dovete decidere, in una certa misura, che cosa vi piacerebbe diventare. Vi assicuro che, se vi dedicherete alla scoperta di ciò che siete, sarà il viaggio più esaltante che abbiate mai fatto in vita vostra. (...) Tutto qui. E' la liberazione di qualcosa che c'è già. La conferma che per voi è giusto essere voi stessi. E' dare a voi stessi il permesso di essere e di progredire. Non è incredibile dover aspettare che qualcuno ci dica che è giusto essere se stessi ? (...) Io sono convinto che voi dominiate il vostro destino e che possiate essere ciò che volete".
Ho messo in risalto quelli che secondo me sono i punti salienti.
Spesso il desiderio di "cambiare vita" nasce dal ripudio di ciò che è fuori di noi, nel senso più ampio: "gli altri" (con i loro valori, o meglio dis-valori, ed i loro comportamenti) ; la società ed il mondo, con le loro regole fisse scritte e non scritte, i loro processi fluidi visibili e sotterranei (logiche, dinamiche, strutture e sovrastrutture). Questo ci convince che dovremmo "cambiare noi". E che l'unico modo per cambiare noi sia abbandonare volenti o nolenti quel brodo di coltura in cui anche noi nuotiamo: in una parola, rifuggirlo. La ribellione, in sè, sembra la soluzione. Al massimo un anticonformismo fine a se stesso (e molte volte alquanto "selettivo": escludente ciò che - banalmente e prosaicamente - torna comunque comodo).
Ma se il problema fosse tutto qui, sarebbe di fatto un non-problema. Basterebbe diventare dei "bastian contrari", come del resto molti fanno approdando a una contrapposizione velleitaria e sterile. Tipo quella - per capirsi restando sull'attualità - di tanti no vax.
Rimarrebbe irrisolto il vero problema che consiste nel rispondere alla domanda (vista sopra): fuggire sì, ma per diventare cosa ? Se non abbiamo chiaro questo, o perlomeno se non lo indaghiamo, se non ce lo domandiamo, se non lo cerchiamo prima, qualsiasi tipo di fuga equivarrà ad anteporre e ad invertire sequenzialmente un atto che, in sè e per sè, resterà privo di senso, vuoto. Servirebbe solo a traslocare da una "sopravvivenza" ad un'altra, con forme diverse. Per fare un esempio banale e concreto: un po' come agognare la pensione per poi scoprire, solo una volta che ci si è andati, di non sapere cosa fare del proprio tempo e come riempirlo. Non è affatto rara una situazione del genere: anzi, capita a tantissimi.
Cambiare, dunque, altro non è che scoprire e giungere a ciò che già si è, abbandonando ciò che non siamo, ciò che crediamo di essere: e sta qui la sintesi tra "coerenza" e "cambiamento".
E questo non significa necessariamente "abbandonare il mondo". Tantomeno fisicamente.
Questo preciso concetto è colto in un famosissimo passo di Seneca, contenuto nella ventottesima epistola delle sue "Lettere a Lucilio". Quest'ultimo, un romano del primo secolo, scriveva all’amico Seneca e si diceva stupito del fatto che i suoi viaggi non gli fossero serviti per eliminare la tristezza che lo affligge. Seneca gli risponde: <Credi che questo sia capitato soltanto a te e ti meravigli come di una cosa straordinaria che, nonostante le tue peregrinazioni così lunghe e tanti cambiamenti di località, non ti sei scrollato di dosso la tristezza e il peso che opprimono la tua mente? Devi cambiare d’animo, non di cielo. Puoi anche attraversare il mare, terre e città retrocedano pure, come dice il nostro Virgilio: ebbene, i tuoi difetti ti seguiranno ovunque andrai.
A un tale che esprimeva questa stessa lamentela Socrate disse: <Perché ti stupisci, se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso? Ti incalza il medesimo motivo che ti ha spinto fuori di casa, lontano>. A che può giovare vedere nuovi paesi? A che serve conoscere città e luoghi diversi? E’ uno sballottamento che sfocia nel vuoto. Domandi come mai questa fuga non ti è utile? Tu fuggi con te stesso. Devi deporre il fardello che grava sul tuo animo, altrimenti non ti piacerà alcun luogo".
Ora, posso ragionevolmente attendermi che detta così sembra un discorso filosofico-teorico, ma in realtà ci sono moltissimi aspetti traducibili sul pratico anche se ciò spalancherebbe un altro interminabile discorso: sul quale probabilmente molti si troverebbero in disaccordo ma che - forse proprio per questo - risulterebbe fertile e proficuo.