7 domande per cambiare

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Utente 32323

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Ripercorro l'ultima dozzina d'anni, le persone incontrate, le esperienze condivise, in 7 domande. Non un sentiero, ma una traccia appena visibile, bisbigliata tra me e me, per riflettere.

Se ti va, aggiungi la tua traccia.

1.
Sto evadendo da qualcosa?


Buttandomi a capofitto in un progetto o in una attività, in mille dettagli, in una nuova routine, sto evitando quello che necessariamente lo precede, certe domande?

...responsabilità, fatica, sofferenza, decisioni, relazioni, insuccessi. In qualche misura, la risposta è 'si': fa parte dell'uomo cercare un'alternativa alla sofferenza, nelle sue mille forme quotidiane.

Volere quello che accade, anziché desiderare che accada qualcosa: lo stoico aveva visto in questo il segreto della felicità. Libertà: non una configurazione più o meno fortunata di fattori esterni, quanto un'attitudine interiore, sempre disponibile.

2.
Sto evitando di lavorare su me stesso?


In India, dove ancora spesso si cammina scalzi, si è soliti dire: indossa un paio di scarpe e tutte le strade saranno rivestite di cuoio. Per cambiare un po' il mondo -- il modo in cui lo vedo e lo giudico -- a volte basta cambiare me stesso. Se sono insoddisfatto di due cose, l'intero mondo comincia a sembrarmi una trappola. Quando trovo pace in me, oasi di significato e umanità iniziano ad apparire tutt'intorno.

3.
Quanto sono libere le mie scelte?


Letture, racconti, social media... Improvvisamente mi ritrovo a leggere di motociclette vintage e sognarne una senza mai averci pensato prima in vita mia! quanto durerà?

Osservare i successi, ma notare anche gli elementi di criticità e fragilità. Thoreau: quanto è durata la sua esperienza? due anni. Un bellissimo libro: di Neil Ansell, "Deep country" (2011). Per lui cinque anni; oggi è un giornalista di successo, e ornitologo. Vicki Mackenzie, "La grotta nella neve" (2000), una donna, oggi monaca in Tibet, cinque anni a 4200m.

4.
Sto cercando di raccogliere consenso?


... anche inconsapevolmente. Sto cercando di impressionare qualcuno? Di nuovo, in una certa misura la risposta potrebbe essere, inaspettatamente, si. Lo insegnano le centinaia di osservazioni scrupolose condotte su di sé dagli eremiti di diverse tradizioni -- i veri eremiti -- nel corso dei millenni. Una volta diventato indivisibile, ritirato nel deserto d'Egitto, su un' isola sperduta al largo dell'Irlanda, sulle vette dell'Himalaya, nella giungla più recondita, per trascorrere la vita meditando o pregando, quando più nessuno ti vede né si ricorda di te, quando gli elogi -- anche taciti e impliciti -- per la tua scelta coraggiosa sono ormai lontani, quanta solerzia ti rimane per quelle ammirevoli intenzioni di un tempo? Loro la chiamavano "superbia" e la consideravano il più temibile dei nostri demoni interiori.

5.
Sono consapevole del cambiamento?


Il cambiamento mio: i miei interessi, valori, esigenze cambiano nel tempo, come normale che sia.

Oggi sono felice di essere solo; posso ragionevolmente presumere che non desidererò mai più una relazione? perché in base alle scelte di oggi potrei anche non trovarmi più nella condizione di poterne iniziare una (vita isolata, mancanza di mezzi, valori non sempre condivisibili). Vivere nella natura: mi ricordo che non sarò sempre in salute e nella condizione di goderne?

6.
Ho toccato quel che sogno?


Realismo. Programmo di vivere del mio orto e leggo ogni giorno di permacultura, ma ho mai tenuto una piantina di basilico sul davanzale della finestra? Più solitudine, ma mi stacco mai dal telefono? Più meditazione: perché, nonostante il tempo libero, finisco sempre per preferire altro?

A pochi minuti di cammino, Londra offriva immensi parchi selvaggi, zone di foresta millenaria, riserve naturali e faunistiche, orti botanici; a pochi minuti di treno una campagna straordinaria. Ogni volta che uscivo -- non lo facevo mai abbastanza -- mi rendevo conto di quanto poco bastasse per ricucire il rapporto con la natura, per nutrire la quiete interiore, per trovare l'avventura.

Se sogno una vita solitaria, potrei iniziare col provare cosa significa restare da solo, senza telefono, per un weekend, o per il tempo di una vacanza estiva. Se sogno più meditazione, potrei iniziare con un ritiro vipassana di 10 giorni e vedere cosa significa meditare 10 ore al giorno. Se sogno di vivere del mio orto di montagna, potrei provare a evitare carne, pesce, uova, formaggio, pane per tre mesi.

Di nuovo: realismo. Approfondire mille aspetti tecnici, spesso davanti a uno schermo -- rocket stove, orto biodinamico, case in argilla, fotovoltaico, bagno a secco, normativa, tutto insieme -- senza aver chiare le questioni fondamentali, ovvero senza conoscere me stesso, senza aver scelto un luogo preciso... Forse esiste una via migliore.

Una volta affrontate le questioni vere, quelle che riguardano anzitutto me stesso, il resto si risolve quasi da sé, e si risolve meglio sul posto che alla scrivania. Leggo e rileggo come si affila una motosega: poi me la trovo tra le gambe e ho in mano la lima... Cerco immobili online, ma per ogni inserzione pubblica ci sono 60 rustici disponibili unicamente per passaparola (così dove vivo).

Un anziano del posto: lui c'è sempre, lui è la guida migliore, disponibile a raccontare e insegnare per filo e per segno tutto quel che serve proprio a me!

7.
Sto sbattendo la porta?


Giovanni Climaco, monaco greco del VI secolo, a chi intendeva "lasciare il mondo" consigliava di andarsene in punta di piedi. Un atto di umiltà e di rispetto, ma anche di realismo. "Lascia il mondo come se fossi tu quello che si sta comportando in modo irragionevole, e non perché il mondo è impazzito", così scriveva 1500 anni fa.

Non è necessario tagliare i ponti. Un giorno ci si potrebbe pentire d'averlo fatto.

Mese dopo mese, anno dopo anno, per scelta arrivo in paese per un'ora alla settimana: l'unica occasione in cui vedo un volto, sento una voce. Piano piano tornano alla memoria le migliaia di persone incontrate nella vita e mi accorgo di essere in debito anche con la 'peggiore' di tutte, perché qualcosa mi ha pur insegnato. Ricordo quello che un tempo ho condiviso -- momenti, cibo, speranze, progetti -- e mi rendo conto che non lascerò mai il mondo, che in qualche modo ne farò sempre parte.

Spero che chi mi circonda, la mia nuova comunità mi capisca e che accetti le mie scelte, forse un po' insolite, ma io sto accettando le loro? forse li giudico? cerco gli altri solo e per quello che serve a me?

A Londra -- sono passati anni -- un giorno lessi: Gentleman è qualcuno che dà al mondo più di quanto abbia ricevuto.

***​

È il mio primo post. Perdonate se preferisco non passare dalla sezione 'presentazioni'. Anche così vi saluto e ringrazio.
 
U

Utente 32323

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Torno su un punto in modo più dettagliato: non mancano modi per provare nel presente quello che sto immaginando o progettando per il futuro.

Sono esperienze che, fatte nel momento sbagliato, semplicemente posticipano domande ben più urgenti (es.: il mio matrimonio è in crisi e comincio a sognare di aprire un maneggio), ma che - una volta fatto ordine nella mia vita - possono fornire un banco di prova e nuovi stimoli di riflessione e crescita. Le risorse economiche impiegate per queste prove mirate sono forse i soldi meglio spesi, che si traducono presto e spesso in risparmi significativi.

In aggiunta agli esempi già citati, talvolta gratuiti, appunto qui alcune idee pratiche che implicano un ulteriore grado di interesse e impegno:

1. Prendere un periodo sabbatico.

Poco diffuso e spesso infattibile in Italia, ma si potrebbe iniziare rifiutando ogni impegno non indispensabile, riducendo le ore di lavoro o usando le ferie per simulare uno scenario (es.: un'amica del Texas, non più giovane, ogni nove anni prende un intero anno sabbatico per girare il mondo in solitaria; un amico italiano è passato da 60h/settimana a un part-time).

Tre vantaggi:

a) sperimento da subito un ritmo di vita meno pressante (magari è tutto quel che mi serve);
b) posso dirottare il tempo risparmiato in attività più significative;
c) è un cambio reversibile.

2. Affittare un rustico.

Se sto pensando all'acquisto o alla costruzione, questo è un passaggio veramente utile. Se lo utilizzo come seconda casa (ho un altro luogo dove mantenere la residenza), potrebbe anche essere qualcosa di spartano, eventualmente privo di alcuni servizi essenziali (es.: un amico in queste condizioni paga €800/anno).

Questa opzione mi permette di:

a) ponderare meglio lo stile di vita che intendo abbracciare;
b) conoscere meglio il luogo (caratteristiche fisiche e climatiche, comunità, opportunità di acquisto);
c) valutare meglio le esigenze tecniche (acquisto/affitto, bagno interno/esterno*, fabbisogno di energia, quantità di bosco/prato);
d) fare marcia indietro se necessario.

* Es.: Un'amica, ricercatrice universitaria di laboratorio negli USA per 10 anni, è tornata il Italia e vive nel bosco. Dal bagno interno è passata a quello esterno e, infine, a qualche buchetta scavata nel terreno al momento del... bisogno.

3. Affittare un rudere o capanno.

Sempre conservando la residenza altrove, questa è la soluzione economicamente meno impegnativa e potenzialmente gratuita, senza rinunciare ai benefici della soluzione precedente.

Non manca chi, in base a un accordo puramente verbale, consente di impiegare questo tipo di proprietà in cambio della sola manutenzione ordinaria (taglio di bosco e prato, sistemare i coppi una volta l'anno, tenere lontano cinghiali e curiosi). Validi i capanni da caccia: il cacciatore li impiega 3 mesi/anno (da metà settembre) e talvolta farebbe volentieri a meno di doverli curare per il resto dell'anno; il capanno è abitabile e in genere provvisto di stufa (e bosco); abitandoci, fosse anche solo nei weekend, già si chiariscono molti dubbi (e, di nuovo, magari è tutto quel che mi serve).

Anche qui un caso reale: un conoscente bada al cavallo del proprietario di casa, ricevendo in cambio l'alloggio; per il vitto esegue lavoretti di manutenzione nei giardini delle seconde case (con offerta libera come compenso: "Mi danno più di quel che chiederei"), ricavandone €1200/anno, per lui più che sufficienti.
 
Ultima modifica di un moderatore:
Bellissime considerazioni, in molte mi ci ritrovo, anche se poi ogni mattina mi alzo e "sbatto" contro la realtà, che mi impedisce appieno di essere "libero". Ma d'altronde, da giurista, so bene che la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri...almeno in una comunità sociale, dove in effetti ho scelto di vivere.
Comunque ho letto con interesse.
Saluti scout e trapper!
 
Es.: Un'amica, ricercatrice universitaria di laboratorio negli USA per 10 anni, è tornata il Italia e vive nel bosco. Dal bagno interno è passata a quello esterno e, infine, a qualche buchetta scavata nel terreno al momento del... bisogno.
Ecco, io quando leggo o sento queste cose mi chiedo sempre cosa ci sia di strano nelle menti di queste persone. Ok fare i bohemien, ma fino ad un certo punto.
Infatti, ho viaggiato in posti dove in generale la realtà è quella citata non per scelta, bensì per necessità.
Bene, tutte le persone che vivono in quelle condizioni ambiscono a migliorare la loro situazione e a vivere in condizioni igieniche meno precarie ed avere un minimo di comodità. Vivere in quelle situazioni, infatti, significa incappare più frequentemente anche in problemi di salute (in primis gastroenterici). Inoltre, volete mettere il caso di dover uscire all'aperto per andare alla latrina, quando piove o nel freddo di una notte invernale? Vogliamo tornare all'utilizzo degli antichi pitali, con tanto di miasmi in casa fino a quando non li si vuota?
Penso infatti che sia chiaro a tutti che svolgere i propri bisogni nel modo descritto crei problemi da un punto di vista igienico: come vengono disperse le feci? Si considera il percolato e la contaminazione delle acque? Si considera che dalle feci umane possono svilupparsi agenti patogeni che, veicolati da insetti (es. mosche), possono mettere a rischio la salute mia e di altri?
Ma soprattutto deve essere chiaro che le norme sono rivolte a tutta la collettività, quindi anche "a me" e quindi non posso pensare di vivere al di fuori delle norme.

Per il resto delle considerazioni, invece, sono d'accordo su quasi tutte quelle che si riferiscono al realismo ed all'esibizionismo. Onestamente, però, non sento alcun fascino per una vita di eremitaggio e in condizioni di totale precarietà e, in fondo, i molti richiami al realismo che giustamente hai fatto, fanno propendere che anche tu, giustamente, la ritenga null'altro che un sogno evasivo.
Una vita più essenziale di quella odierna può essere fatta, ma fino ad un certo punto.
 
U

Utente 32323

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Infatti, ho viaggiato in posti dove in generale la realtà è quella citata non per scelta, bensì per necessità.
Avendo vissuto non da turista in realtà come quelle a cui alludi, ne ho viste pure io. Quando chiedevo a queste persone cosa desideravano, spesso rispondevano con una lista di beni materiali a noi ben nota. Nelle prime posizioni c'era in genere uno smartphone di ultimissima generazione. A ciascuno interpretare questa realtà come meglio crede.

Penso infatti che sia chiaro a tutti che svolgere i propri bisogni nel modo descritto crei problemi da un punto di vista igienico [...].
Evito i dettagli, non essendo questa discussione il luogo, e nemmeno propongo questo come modello di vita, ma la persona in questione è un ingegnere chimico che ha studiato per decenni l'impatto sul pianeta e sull'uomo della gestione dei rifiuti. Anche qui, a ciascuno approfondire come crede.

[...] i molti richiami al realismo che giustamente hai fatto, fanno propendere che anche tu, giustamente, la ritenga null'altro che un sogno evasivo. Una vita più essenziale di quella odierna può essere fatta, ma fino ad un certo punto.
"Una vita più essenziale di quella odierna può essere fatta", quindi è tutt'altro che un sogno, come provato dalle molte persone che la conducono per scelta. "Fino a un certo punto", come ogni cosa.
 
Ultima modifica di un moderatore:
Personalmente credo che ognuno faccia bene a seguire le domande profonde che ha dentro e mi sembra che Ago sollevi domande profonde sui "bisogni" e sulle "fughe" che ci sono dietro ogni scelta, con spirito chiaro e concreto.
Come Herr credo che, se da migliaia di anni, miliardi di individui vanno nella direzione opposta, un motivo ci sia e non sia solo la fuga. Credo di comprendere tuttavia il valore di queste esperienze non tanto come via cauta di apporccio a cambi radicali, quanto come "spazio di autoascolto" di sé, per evitare di appiattirci su ciò che facciamo e dimenticare l'animale che siamo e l'anima che ci abita.
 
Personalmente credo che ognuno faccia bene a seguire le domande profonde che ha dentro e mi sembra che Ago sollevi domande profonde sui "bisogni" e sulle "fughe" che ci sono dietro ogni scelta, con spirito chiaro e concreto.
Come Herr credo che, se da migliaia di anni, miliardi di individui vanno nella direzione opposta, un motivo ci sia e non sia solo la fuga. Credo di comprendere tuttavia il valore di queste esperienze non tanto come via cauta di apporccio a cambi radicali, quanto come "spazio di autoascolto" di sé, per evitare di appiattirci su ciò che facciamo e dimenticare l'animale che siamo e l'anima che ci abita.
posso mettere solo un mi piace ma ne avrei messi 2
 
U

Utente 32323

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Allargo lo sguardo:
ordino i pensieri, nella calma
accolgo la vista degli alberi
all'inoltrarmi nel bosco.

*​

1. Chi mi ha preceduto?

Giovanni Cassiano, monaco del IV sec. la cui identità è in buona parte tuttora avvolta nel mistero (rimane incerto, per esempio, se provenisse dalla Francia o dalla Siria), è probabilmente l'individuo che - dopo i protagonisti delle vicende bibliche - ebbe maggior influenza sul monachesimo cristiano nascente, come su quello delle epoche successive fino ai giorni nostri.

Parimenti influente fu una raccolta di detti dei primi eremiti cristiani, i "padri del deserto" (tra loro ci furono anche donne, per cui sarebbe doveroso parlare di padri e madri del deserto). L'espressione comprende coloro che tra III e V secolo abbandonarono i centri abitati -- anzitutto dell'Egitto, ma anche di Siria e Palestina -- e abbracciarono una vita solitaria in zone desertiche. Eremitismo e monachesimo (cristiani) ancora non esistevano: furono queste persone a definire con la loro esperienza silenziosa il significato di questi termini.

Oltre che dal poco che rimane delle umilissime abitazioni che si costruirono nella roccia e tra la sabbia, li conosciamo anzitutto attraverso i "Verba Seniorum", o "Detti dei padri": le brevi frasi carpite da alcuni viaggiatori che, venuti a conoscenza della loro esistenza, ne erano rimasti affascinati al punto da decidere di affrontare i pericoli del deserto per cercare di conoscerli più da vicino.

Anche Agostino, allora a Milano, udì parlare di questi uomini schivi attraverso il racconto di alcuni amici, e il racconto lo precipitò in sconvolgenti domande. Benedetto, un secolo più tardi, nel redigere la sua regola monastica raccomandava che i detti dei padri venissero letti ogni sera dopo compieta, tradizione tuttora seguita da buona parte degli ordini contemplativi. E fu sull'esempio di questi silenziosi temerari che l'Europa -- partendo dai luoghi più remoti e inospitali come le scogliere e le isole dell'Irlanda, che ancora conservano i loro piccoli rifugi in pietra -- dal VI secolo iniziò a popolarsi di solitari.

Probabilmente sul finire del IV sec. Cassiano visitò, insieme all'amico Germano, diversi padri del deserto egiziani nei loro rifugi chiamati celle e compose le "Conlationes" o "Conferenze": resoconti dettagliati di queste sue conversazioni.

Sia i "Detti dei padri" sia le "Conversazioni" di Cassiano (Paoline, 2019) contengono materiale per chi ama riflettere su di sé anzitutto, e sulla vita solitaria in secondo luogo. Si tratta di testi nati in ambito cristiano, tuttavia capaci di comunicare le esigenze di ogni uomo ed esperienze non settarie.

Una porta d'accesso a questa tradizione potrebbe essere un libretto poco noto scritto da Thomas Merton, monaco trappista che nel secolo scorso seppe trasmettere nuova linfa all'esperienza contemplativa e al dialogo tra le religioni. Nel 1960 stampò a mano in poche copie "The wisdom of the desert" (disponibile in Italiano: "La saggezza del deserto"). Alla traduzione di una selezione di 150 detti di padri e madri del deserto, Merton faceva precedere un'introduzione di 22 pagine che ne riassumono l'esperienza e soprattutto ne indagano la rilevanza per l'epoca moderna. Che senso ha lasciare il mondo? con che spirito lo fecero questi precursori? cosa ricavarne oggi? è ancora possibile fare qualcosa di simile? in che modo raccoglierne eredità?

Questi uomini e queste donne di rado andarono nel deserto perché disgustati dal mondo. Ci andarono, prima ancora che per incontrare un ipotetico Dio, per trovare il proprio vero io, per conoscere se stessi. Tutto il resto era accessorio e funzionale a questo scopo. Nelle poche parole che ci hanno lasciato non parlano di come depurare l'acqua piovana, come scavare una grotta accogliente e strutturalmente solida, provvedere a una dieta bilanciata, allestire un bagno salubre. Tutto ciò era dopo tutto irrilevante. Pur trascorrendo un'intera vita in ambienti profondamente ostili, pur elaborando una risposta a queste necessità, fu di altro che si occuparono, e fu solo occupandosi di altro che poterono condurre una simile esistenza.

2. Posso farcela da solo?

Va', siedi nella tua cella e la tua cella ti insegnerà tutto. È una di queste lapidarie e furtive testimonianze di vita. A distanza di quasi duemila anni, ancora hanno l'effetto di "un mattone tirato in una finestra".

Un nuovo arrivato, o un giovane con qualche esperienza alle spalle, si presentava all'anziano dicendo: Abba, dimmi una parola buona, a significare: E adesso cosa devo fare? L'anziano rispondeva con una breve frase, frutto non tanto di studi ma di decenni di esperienza personale; una frase che al giovane sarebbe dovuta bastare per mesi o anni. Va', siedi nella tua cella. Lo leggiamo e un attimo dopo siamo a metà della pagina successiva. Per quel giovane questa frase sarebbe divenuta l'unico nutrimento per mesi a venire, la bussola con cui orientarsi nel deserto interiore, nel quale è inevitabile prima o poi perdersi, soccombendo ai tanti demoni che lo abitano.

Così, generazione su generazione, si costruiva silenziosamente, invisibilmente, sulle esperienze di chi era venuto prima. Risultò presto chiaro: i primi ad andarsene, o a uscire di senno, erano coloro che, mancando di umiltà, non riconoscevano il valore di chi li aveva preceduti e facevano affidamento unicamente su di sé, scegliendo di costruire sul proprio nulla.

3. Perché cambiare?

Secondo Merton ciò che più di ogni altra cosa possiamo apprendere da queste persone è il coraggio, la determinazione ad avanzare nell'ignoto.

E l'ignoto è anzitutto l'ignoto che ci portiamo dentro.

Cassiano, nella terza delle sue conversazioni, espone l'insegnamento di abba Pafnuzio, uno degli anziani con alle spalle decenni di vita nel deserto, in merito ai "tre tipi di rinuncia", ovvero le tre categorie di motivi per cui, in quel contesto, le persone decidevano di lasciare tutto. La prima, come si è visto: cercare Dio, o se stessi, o Dio in sé stessi. La seconda: perché ispirati da altri. La terza: per eventi particolari (un incidente, un lutto, un insuccesso). Ci potremmo aspettare che l'unica categoria valida sia la prima: coloro che lo fanno con cognizione di causa, per vera vocazione, consapevolmente. Nella seconda categoria troviamo coloro che si fanno influenzare da altri, gli emuli. Nella terza coloro che scappano da qualcosa, i fuggitivi.

Ebbene, abba Pafnuzio, pur riconoscendo una certa gerarchia tra le motivazioni, non ne esclude alcuna. Le tre sono perfettamente legittime. Nel deserto non mancano certo esempi della terza specie: Mosè, detto "il nero", poi insignito del rispettoso titolo di abba (padre, maestro, anziano non per età ma per saggezza), era finito qui dopo aver assassinato un uomo e per sfuggirne le conseguenze.

Epilogo.

Questa apertura di visione, come una radura che inattesa si apre nel bosco, mi colpì profondamente. Vi riconobbi il desiderio di accettare la diversità, accettare l'uomo qualsiasi fosse il suo cammino.

E questo racconto, uno tra tanti possibili, in un mondo che salta alle risposte è un semplice pretesto per tornare alle pure domande.

Qualunque sia la ragione che mi ha condotto al bosco, silenzio e solitudine faranno il loro lavoro. Scaveranno e smusseranno sassi come un torrente che si precipita a valle per la via più breve. Ci saranno giorni di piena e tutto vacillerà, trascinato via con furia. Giorni di secca e tutto sembrerà privo di vita, le scelte vuote, i programmi inutili.

Senza appigli il viaggio può rivelarsi fatale: un girare in tondo mentre finiscono le provviste e arriva l'inverno dell'anima. Eppure nel corso dei millenni, tentativo dopo tentativo, senza poter rappresentare nei dettagli ciò c'è va al di là delle parole, una mappa è stata tracciata, alcuni riferimenti per il tragitto sono stati sussurrati da coloro che non hanno saputo resistere al richiamo e che, pur dovendo affrontare da soli l'ignoto, hanno attinto alla conoscenza di chi li aveva preceduti e lasciato segni per coloro che li avrebbero seguiti.


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Foto: Baracca nel bosco, incontrata nella passeggiata di ieri. Chi l'ha costruita, e modo suo, ha saputo guardare oltre.
 
I viaggi sono tanti. Io mi sto preparando al mio, assai incerto, dentro me stesso e dentro la vita. "The best way out is always through". Sto in ascolto. Grazie della condivisione.
 
Va', siedi nella tua cella e la tua cella ti insegnerà tutto
Infatti tutti i carcerati in isolamento, notoriamente sono molto contenti della situazione.
Altrettanto vale per i comuni cittadini: fra le persone che vivono in condizioni di isolamento, sono molto più frequenti problemi di salute mentale e sociale (alcolismo, consanguineità, depressione, suicidi, etc. ).
Notoriamente, poi, l'isolamento in sè è molto istruttivo. Ma per favore... da sempre l'isolamento è la prima delle cause di arretratezza mentale e culturale, sia per gli individui, sia per popolazioni intere.

Cassiano, i padri del deserto, etc. etc. ecco, io non scomoderei anacoreti et similia, perchè nella stragrande maggioranza vivevano si in isolamento, ma non necessariamente in chissà quali posti sperduti, spesso erano a poca distanza da luoghi abitati; inoltre molti facevano solo dei periodi di isolamento, alternandoli ad altri di vita in comunità. Ma soprattutto, ricevevano elemosine e cibo dalla gente che li vedeva come santoni. E se la gente non andava da loro, erano loro ad andare a mendicare.
Nessuno vive di aria. Bisogna mangiare e bere.
E non dimentichiamo che spesso morivano giovani.

In tempi passati, i monaci di clausura possedevano vasti possedimenti che facevano lavorare a contadini, da cui traevano le loro risorse; inoltre, l'isolamento di persone in comunità di quel tipo era frutto anche di condizionamento sociale. Tant'è che oggi la realtà vocazionale è ben diversa. In ogni caso, oggi si mantengono si in isolamento personale, ma non certo economico, socio-assistenziale ed informativo.
 
U

Utente 32323

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Il semplice sedersi è la custodia dell’autentica visione della realtà del meraviglioso cuore della profonda verità. Dogen Zenji, XIII sec.
 
io credo che la differenza fra i casi che poni tu @Herr e quelli discussi da @Ago sia semplicemente che i primi non hanno scelto di stare da soli i secondi sì, per motivi diversi ma per loro evidentemente più che validi.
 
Infatti tutti i carcerati in isolamento, notoriamente sono molto contenti della situazione.
Altrettanto vale per i comuni cittadini: fra le persone che vivono in condizioni di isolamento, sono molto più frequenti problemi di salute mentale e sociale (alcolismo, consanguineità, depressione, suicidi, etc. ).
Notoriamente, poi, l'isolamento in sè è molto istruttivo. Ma per favore... da sempre l'isolamento è la prima delle cause di arretratezza mentale e culturale, sia per gli individui, sia per popolazioni intere.

Cassiano, i padri del deserto, etc. etc. ecco, io non scomoderei anacoreti et similia, perchè nella stragrande maggioranza vivevano si in isolamento, ma non necessariamente in chissà quali posti sperduti, spesso erano a poca distanza da luoghi abitati; inoltre molti facevano solo dei periodi di isolamento, alternandoli ad altri di vita in comunità. Ma soprattutto, ricevevano elemosine e cibo dalla gente che li vedeva come santoni. E se la gente non andava da loro, erano loro ad andare a mendicare.
Nessuno vive di aria. Bisogna mangiare e bere.
E non dimentichiamo che spesso morivano giovani.

In tempi passati, i monaci di clausura possedevano vasti possedimenti che facevano lavorare a contadini, da cui traevano le loro risorse; inoltre, l'isolamento di persone in comunità di quel tipo era frutto anche di condizionamento sociale. Tant'è che oggi la realtà vocazionale è ben diversa. In ogni caso, oggi si mantengono si in isolamento personale, ma non certo economico, socio-assistenziale ed informativo.
C'è una differenza sostanziale tra "isolamento" e "solitudine", e non per nulla sono due parole diverse nonostante entrambe si riferiscano allo "stare da soli".

In un caso lo stare da soli è subìto, nell'altro è cercato.

In un caso, molto spesso, è una condizione di vita dipendente dagli altri o dagli eventi della vita stessa (cause comunque "esterne"), nell'altro è una condizione dipendente da se stessi (motivi interiori).

In un caso si pone in netta alternativa all'inserimento sociale, nell'altro può anche (anzi spesso) essere complementare e alternato ad esso: chiunque può fare un'esperienza di solitudine, proprio per distaccarsi temporaneamente dal contesto sociale in cui normalmente è immerso e poterlo mettere a fuoco come solo il distanziamento consente (non si può guardare nessuno schermo standoci appiccicati). Gli eremiti, che fanno della solitudine un modo e uno stile di vita, sono semmai l'eccezione.

La solitudine serve a qualcosa, l'isolamento no.

Detto questo, sulla solitudine ci sarebbe ampiamente da dire.
 
Piano... se la mettete sul piano semantico, secondo i vocabolari, i due termini non hanno il significato che dite, ma sono invece sovrapponibili o veri e propri sinonimi:
solitùdine s. f. [dal lat. solitudo -dĭnis, der. di solus «solo»]. – 1. La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura.
iṡolaménto s. m. [der. di isolare]. – In genere, l’atto di isolare, e lo stato, la condizione di chi o di ciò che è isolato. c) La condizione di chi, per propria libera scelta (che puo avere motivazioni varie, tra cui anche un bisogno di concentrazione, un desiderio di solitudine spirituale) o costretto da cause esterne, o anche per egoismo, per misantropia, vive in solitudine, appartato dagli altri; di chi è privo di amici, di appoggi, di persone che l’aiutino e l’assistano; o anche di chi, pur vivendo in mezzo agli altri, si sente spiritualmente isolato, abbandonato a sé, senza calore di affetti, e sim.

Possiamo poi discutere sul caso di chi la solitudine se la ritrova dalla nascita, di chi si trova a subirla improvvisamente, di chi infine la sceglie deliberatamente e, si sa, c'è chi si trova a subire la solitudine/isolamento e lo accetta senza molti problemi: non tutti i carcerati, non tutti quelli che vivono in posti sperduti hanno problemi, però nemmeno tutti quelli che scelgono deliberatamente la solitudine/isolamento, sono poi in grado di accettarla.
Ma resta il fatto che statisticamente è una condizioni che provoca frequentemente gli effetti problematici che ho citato.
Secondo me il film Into the wild è il perfetto esempio per il nostro caso.
Un tizio, sognatore irrazionale, mezzo disadattato e per di più impreparato, fa liberamente la sua scelta e ci lascia poi le penne, mica tanto volentieri però.

Ora, calco un po' la mano eh, lo so... ma secondo il DSM-5 la ricerca della solitudine/isolamento e la fuga dalla società, in particolare quando diventano scelta di vita, hanno spesso a che fare con disturbo schizoide di personalità.
Infatti, quanto sopra trova conferma nel fatto che la gente, se può, non vive affatto in solitudine e se ci si trova, cerca di mitigarla più che può.
 
Ultima modifica:
Piano... se la mettete sul piano semantico, secondo i vocabolari, i due termini non hanno il significato che dite, ma sono invece sovrapponibili o veri e propri sinonimi:
solitùdine s. f. [dal lat. solitudo -dĭnis, der. di solus «solo»]. – 1. La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura.
iṡolaménto s. m. [der. di isolare]. – In genere, l’atto di isolare, e lo stato, la condizione di chi o di ciò che è isolato. c) La condizione di chi, per propria libera scelta (che puo avere motivazioni varie, tra cui anche un bisogno di concentrazione, un desiderio di solitudine spirituale) o costretto da cause esterne, o anche per egoismo, per misantropia, vive in solitudine, appartato dagli altri; di chi è privo di amici, di appoggi, di persone che l’aiutino e l’assistano; o anche di chi, pur vivendo in mezzo agli altri, si sente spiritualmente isolato, abbandonato a sé, senza calore di affetti, e sim.

Possiamo poi discutere sul caso di chi la solitudine se la ritrova dalla nascita, di chi si trova a subirla improvvisamente, di chi infine la sceglie deliberatamente e, si sa, c'è chi si trova a subire la solitudine/isolamento e lo accetta senza molti problemi: non tutti i carcerati, non tutti quelli che vivono in posti sperduti hanno problemi, però nemmeno tutti quelli che scelgono deliberatamente la solitudine/isolamento, sono poi in grado di accettarla.
Ma resta il fatto che statisticamente è una condizioni che provoca frequentemente gli effetti problematici che ho citato.
Secondo me il film Into the wild è il perfetto esempio per il nostro caso.
Un tizio, sognatore irrazionale, mezzo disadattato e per di più impreparato, fa liberamente la sua scelta e ci lascia poi le penne, mica tanto volentieri però.

Ora, calco un po' la mano eh, lo so... ma secondo il DSM-5 la ricerca della solitudine/isolamento e la fuga dalla società, in particolare quando diventano scelta di vita, hanno spesso a che fare con disturbo schizoide di personalità.
Infatti, quanto sopra trova conferma nel fatto che la gente, se può, non vive affatto in solitudine e se ci si trova, cerca di mitigarla più che può.
Ma infatti quando ho concluso che sulla solitudine ci sarebbe da dire parecchio alludevo proprio a questo, al fatto - cioè- che possa senz'altro essere un' "esperienza" (anche ripetuta), che come tale arricchisce, ma che ben difficilmente - vista la natura umana di "animale sociale" - può rivelarsi positiva se diventa regola e costume di vita.
In realtà accade spesso che per "accettare" l'isolamento e sopportarne la sofferenza lo si travesta e lo si spacci (a se stessi) per solitudine. Come dire, pur di farsene una ragione.

Io stesso, ad esempio, soffro parecchio i momenti di solitudine quando non mi cerco ma li devo vivere "mio malgrado", in primis non avendo famiglia (che pur avrei voluto...ma non sono di quelle cose che trovi su uno scaffale e compri). Li soffro eccome.
E allora mi indoro l'amara pillola cercando di suggestionarmi coi lati positivi.
Come diceva Leopardi, la solitudine agisce come una lente d'ingrandimento: se ci stai bene, ci stai benissimo; se ci stai male, ci stai malissimo.
 
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