Nel 1999 uscivo da una storia ultradecennale che mi lasciò un abbastanza stordito e dopo un inverno un po’ disinvolto nei rapporti col gentil sesso, sentivo il bisogno di una mia odissea catartica… ma non nello Spazio (spero che qui qualcuno si ricordi del mitico capitano Koenig, alias Martin Landau).
Amando da sempre le traversate plurinazionali e i passaggi di frontiera, adocchiai un territorio ingiustamente trascurato per questo tipo di avventure: il Centro America. L’idea era di andare dal Messico a Panama via terra, attraverso Guatemala, Belize, Honduras, Nicaragua, Costarica e gli innumerevoli pericoli paventati dalla Lonely Planet, saltando solo El Salvador che pare che a quei tempi fosse Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.
Sì, è vero, la povertà, i furti, il terrorismo, ma io alla fin fine nei paesi latino americani mi sono sempre sentito al sicuro. È che ne capisci non solo la lingua ma anche la mentalità e sai sempre pressappoco cosa aspettarti… Come quella volta che un gruppuscolo che mi aveva adocchiato a Tegucigalpa parlottava di me e io gli risposi per le rime. Ho visto invece angloamericani addirittura atterriti, quando io me ne andavo bel bello (si fa per dire) da solo. Comunque, per buona misura, mi ero stilato una sorta di tabella sinottica suddivisa per stati dei possibili pericoli, sociali e naturali. Anche se questo non m’impedì di finire a ballare in Nicaragua in una sorta di balera durante un festa locale, dove nella bolgia di musica latinoamericana scorrevano fiumi di coca cola e di rum.
In effetti, poi, con 40 giorni a disposizione, avevo fatto un po’ la bocca di scendere il Colombia, ma solo lì scoprii dell’esistenza del famigerato Darien Gap: la strada Panamericana, tante volte incontrata nei miei viaggi dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco, s’interrompe fra Yaviza (Panama) e Turbo (Colombia) per un coacervo di motivi geopolitici, sociali, sanitari, ambientali e di narcotraffico.
Insomma, fu un viaggio piuttosto vario, dalle fresche quote degli oltre 2000 metri della parte nord, al caldo asfissiante delle selve e delle spiagge, dense di vestigia Maya: Palenque, Tikal Copan.
Con i villaggi dove gli antichi e ancora vivi riti Maya s’intrecciavano con la religione cattolica in un sincretismo di estremo fascino.
E poi ore trascorse al Canale di Panama, dove senza soluzione di continuità le grandi navi andavano e venivano, salivano e scendevano nelle chiuse e sparivano all'orizzonte, passando in otto ore da un oceano all'altro.
E ancora i surreali passaggi di frontiera, scanditi da fasce chilometriche di terra di nessuno che era obbligatorio passare a piedi, per incontrare poi una dogana in baracche di legno nella foresta, con lenti ventilatori di metallo e funzionari sudati che ti richiedevano improbabili tasse di ingresso, di uscita, di soggiorno, di aiuto alla croce rossa locale, di finanziamento della municipalità limitrofa.
Il viaggio fu gestito su scomodissimi ex scuolabus nordamericani, alcuni ancora con la livrea gialla e le scritte regolamentari, i più dipinti con gli sgargianti colori del caribe. I sedili a misura di indio: a volte non c'era neanche lo spazio per i femori. Ma per 4.500 chilometri di viaggio il costo complessivo fu di 132 dollari e 63 centesimi (come direbbe Zio Paperone).
Il tutto scandito dalle pagine di L'amore ai tempi del colera di Marquez: mai libro fu più adeguato all’ambiente attraversato!
Amando da sempre le traversate plurinazionali e i passaggi di frontiera, adocchiai un territorio ingiustamente trascurato per questo tipo di avventure: il Centro America. L’idea era di andare dal Messico a Panama via terra, attraverso Guatemala, Belize, Honduras, Nicaragua, Costarica e gli innumerevoli pericoli paventati dalla Lonely Planet, saltando solo El Salvador che pare che a quei tempi fosse Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.
Sì, è vero, la povertà, i furti, il terrorismo, ma io alla fin fine nei paesi latino americani mi sono sempre sentito al sicuro. È che ne capisci non solo la lingua ma anche la mentalità e sai sempre pressappoco cosa aspettarti… Come quella volta che un gruppuscolo che mi aveva adocchiato a Tegucigalpa parlottava di me e io gli risposi per le rime. Ho visto invece angloamericani addirittura atterriti, quando io me ne andavo bel bello (si fa per dire) da solo. Comunque, per buona misura, mi ero stilato una sorta di tabella sinottica suddivisa per stati dei possibili pericoli, sociali e naturali. Anche se questo non m’impedì di finire a ballare in Nicaragua in una sorta di balera durante un festa locale, dove nella bolgia di musica latinoamericana scorrevano fiumi di coca cola e di rum.
In effetti, poi, con 40 giorni a disposizione, avevo fatto un po’ la bocca di scendere il Colombia, ma solo lì scoprii dell’esistenza del famigerato Darien Gap: la strada Panamericana, tante volte incontrata nei miei viaggi dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco, s’interrompe fra Yaviza (Panama) e Turbo (Colombia) per un coacervo di motivi geopolitici, sociali, sanitari, ambientali e di narcotraffico.
Insomma, fu un viaggio piuttosto vario, dalle fresche quote degli oltre 2000 metri della parte nord, al caldo asfissiante delle selve e delle spiagge, dense di vestigia Maya: Palenque, Tikal Copan.
Con i villaggi dove gli antichi e ancora vivi riti Maya s’intrecciavano con la religione cattolica in un sincretismo di estremo fascino.
E poi ore trascorse al Canale di Panama, dove senza soluzione di continuità le grandi navi andavano e venivano, salivano e scendevano nelle chiuse e sparivano all'orizzonte, passando in otto ore da un oceano all'altro.
E ancora i surreali passaggi di frontiera, scanditi da fasce chilometriche di terra di nessuno che era obbligatorio passare a piedi, per incontrare poi una dogana in baracche di legno nella foresta, con lenti ventilatori di metallo e funzionari sudati che ti richiedevano improbabili tasse di ingresso, di uscita, di soggiorno, di aiuto alla croce rossa locale, di finanziamento della municipalità limitrofa.
Il viaggio fu gestito su scomodissimi ex scuolabus nordamericani, alcuni ancora con la livrea gialla e le scritte regolamentari, i più dipinti con gli sgargianti colori del caribe. I sedili a misura di indio: a volte non c'era neanche lo spazio per i femori. Ma per 4.500 chilometri di viaggio il costo complessivo fu di 132 dollari e 63 centesimi (come direbbe Zio Paperone).
Il tutto scandito dalle pagine di L'amore ai tempi del colera di Marquez: mai libro fu più adeguato all’ambiente attraversato!
Allegati
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