- Parchi d'Abruzzo
-
- Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise
Dati
Data: 30/06/2013
Regione e provincia: Abruzzo / L'Aquila
Località di partenza: Campo Imperatore
Località di arrivo: Fonte Vetica
Tempo di percorrenza: 13 ore
Chilometri:
Grado di difficoltà: EEA
Descrizione delle difficoltà:
Periodo consigliato: Giugno - settembre
Segnaletica:
Dislivello in salita:
Dislivello in discesa:
Quota massima: 2564 (M. Camicia)
Accesso stradale: Assergi A24
Partecipanti :
Alessandra; Flavia; Lisa (Lisa82); Francesco (Gerifalco); Michele (Michel); Bruno (Bru71); Andrea (Henry Th.)
Descrizione:
Alla fine anche per me è stata la volta di fare in concreto una di quelle classiche cose che vedi raccontate, riferite, fotografate, relazionate fino allo sfinimento, ma che restano sempre vaghe e immaginarie come sfogliare un libro d'avventure finchè non le si prova in pirma persona.
Devo dire la verità: cercando coi motori di ricerca - e oggi questa possibilità rappresenta un vero privilegio rispetto a gran parte del passato ormai quarantennale del Centenario - mi sono imbattuto in innumerevoli relazioni, spesso dettagliate fino alla minuzia relativamente al percorso, alle singole difficoltà, alle vie di fuga, agli accorgimenti tecnici. Parimenti tutte piuttosto generiche con riferimento alle impressioni complessive, ma d'una tale sorprendente omogeneità da sembrare davvero ispirate a una sorta di medesimo format.
I concetti dominanti sono quelli che compongono le tipiche epopee: la fatica, le incertezze, l'appagamento, la soddisfazione.
In alcuni racconti, leggendo tra le righe più in profondità (almeno come ho cercato di fare io scandagliando anche "oltre" le parole scritte) traspare il confronto costante con le proprie forze fisiche, le proprie capacità tecniche e con la propria coscienza, la battaglia interiore tra l'entusiasmo e l'implacabile sincerità di giudizio che si è chiamati a dare verso se stessi ogniqualvolta il sentiero propone, quasi in modo "voluto" e psicologicamente spietato, due contrapposte tentazioni titaniche: quella mesta, grigia ma enormemente rassicurante dell'abbandono anticipato e la sirena ammaliante e radiosa del coronamento dell'impresa.
Come dire, da un lato la metafora della casa che ci attende, e dall'altro quella dell'ignoto che emoziona. Da un lato il richiamo quasi morale di rispettare i propri limiti sottostandovi, dall'altro il lucciore dell'occasione di spostarne un po' più in là il confine, aggiornandolo. Da un lato, la forma razionale della maturità, quella di saper rinunciare; dall'altro, la forma scapestrata e istintiva, quella del cuore gettato oltre l'ostacolo a fissare un salto in avanti nelle proprie esperienze.
Sì, perchè poi chi riesce nell'impresa ha puntualmente l'aria un po' trasognata dello studente appena uscito dall'esame di maturità.
Il Centenario è veramente la "maturità" dell'escursionista, il massimo della completezza che si possa pretendere, almeno a queste latitudini, quella completezza oltre la quale rimane da bucare soltanto il diaframma verso l'alpinismo. C'è il tracciato turistico (sia in salita che in discesa), i saliscendi infiniti, i panorami lontani da ammirare e quelli fin troppo vicini per non restarne quantomeno intimoriti (baratri e strapiombi), terreni di tutti i tipi dall'erba al misto a tutte le possibili varietà di pietrame e in tutte le possibili combinazioni di pendenza. E ancora: la necessità di attrezzature, la costrizione all'uso delle mani che un profano abituato a sentirsela solo sotto i piedi spalanca sulla roccia davvero altri panorami (tutti sensoriali); i canalini dove la roccia si vede così vicina quasi da annusarla e respirarla; e dove si arrampica ricorrendo non a tecniche ma a reconditi e atavici istinti estratti da chissà quali insospettati forzieri interiori.
La parte centrale del percorso sembra la traiettoria che tante piccole formicolanti sonde umane seguono per attraversare tutti i misteriosi organi interni d'un gigantesco corpo quale appare il Massiccio del Gran Sasso. Non solo il cuore, ma il cervello, i bronchi con cui respira, i reni con cui si purifica. E le viscere: le più intricate, contorte, nascoste. A tratti sembra davvero di trovarsi di fronte quell'incredibile ossimoro, cioè il controsenso, che sono le pulsazioni-della-pietra, ossia i movimenti dell'immobile: coi suoi ventricoli, le vene e le arterie, i suoi segretì, saggiando tutto ciò così "dentro", così da vicino come soltanto una sonda può fare, e ammirando spettacoli che nessuna vista da lontano potrà mai regalare. Una visione 'insieme in lontananza intriga per quanto è complessiva e quindi elegante, estetica; invece lì sembra d'essere come il macellaio davanti al suo bancone: tutto sezionato, parziale, perfino sanguinolento (come le pietre che nella loro incessante friabilità non cessano mai un eterno movimento), ma tutto vivo: anzi molto più vivo di certi spettacoli a figura intera talora poco più che cartoline patinate e un po' stucchevoli.
Scalette, corde, imbraghi, mani, un sentiero a tratti talmente a vista e immaginario da essere solo mentale al di là dei segni (peraltro spesso ingannevoli) sono tutte componenti diverse ma il cui comune denominatore è appunto quello di permettere all'escursionista questa esplorazione così "non convenzionale" per l'Appennino; e che rende altrettanto non convenzionali il Centenario e le emozioni che regala proprio nella sua estrema convenzionalità "materiale" dovuta a 40 anni di codificazione e chissà ormai quante migliaia o addirittura milioni di percorrenze.
Su questo percorso più che ammirare la montagna si ammira la pietra: sì, perchè spesso subito dopo snodi, tornanti e scavallamenti che spalancano scorci maestosi ma che parimenti sembrano annientare per la loro apparente insepugnabilità (la domanda che sgorga è: ma dove potrà mai passare il sentiero ?), ebbene l'avvicinamento progressivo svela sempre, puntuale, la vulnerabilità di quei bastioni: per affrontarli basta solo farsi abbastanza "piccoli", in tutti i sensi. Il rispetto delle reciproche dimensioni è tutto ciò che la pietra sembra chiedere per essere esplorata: e di riflesso, dalla pietra, la montagna.
E infine l'altro grande versante di ammirazione che regala questo percorso è quello verso noi stessi. Raramente come in questo caso le sensazioni di ognuno sono così poco autoreferenziali e si compongono invece in modo indelebile e determinante anche di quelle degli altri, specchiandosi nei rispettivi comportamenti.
Come quando ci si spinge avanti (o viceversa si resta indietro) e la scomparsa della vista dei compagni fa sorgere subito l'istinto del ricompattamento molto di più che non in tante altre occasioni. Come quando l'attenzione (ma anche i ripensamenti postumi) cade su aiuti che si danno, si ricevono o si omettono, o si accettano o magari si rifiutano per mettersi alla prova. Come quando, inevitabilmente, qualcuno finisce sempre per prospettare il desiderio di una conclusione anticipata e allora la fatica accumulata fa venir voglia di arrendersi accondiscendendo in massa, complici le varie vie di fuga che sembrano disseminate apposta lungo l'interminabile cresta. in particolare l'ultima, quella al Vado Ferruccio dove di fronte si staglia soltanto l'ultima fatica, il Monte Camicia, e vien da domandarsi se quel gigante possa dare o togliere un senso all'intero percorso fatto fin lì: salvo poi scoprire il suo camino come la chicca finale della completezza. Insomma, è veramente notevole la scia emotiva lasciata da quello che alla fine risulta essere stato un costante gioco di sponda.
La nostra escursione di ieri ha avuto due fasi distinte: una prima metà canonica rispetto sopratutto ai tempi, fino all'Infornace dove abbiamo pranzato. La seconda metà è stata più turistica (come si evince chiaramente dal tempo finale), soprattutto perchè ha cominciato a serpeggiare la tentazione del ritorno anticipato da Vado Ferruccio -dove poi ci siamo effettivamente salutati dividendoci in due gruppi- e quindi a venir meno il pungolo degli orari. Ma tutto questo non ha inficiato la sostanza: anzi, ho maturato l'impressione che questo sia un percorso da fare almeno due volte, riservando la prima alla pura conoscenza.
Posso chiudere solo ringraziando uno ad uno i miei compagni di ieri per un'esperienza che - se proprio un difetto le si trova - paradossalmente è quello di rimpicciolirne un po' molte altre e di indurre a domandarsi perchè non la si sia sperimentata prima.
H.T.
PS: dimenticavo : ORA LE FOTO !!! (che non ho fatto io )
Data: 30/06/2013
Regione e provincia: Abruzzo / L'Aquila
Località di partenza: Campo Imperatore
Località di arrivo: Fonte Vetica
Tempo di percorrenza: 13 ore
Chilometri:
Grado di difficoltà: EEA
Descrizione delle difficoltà:
Periodo consigliato: Giugno - settembre
Segnaletica:
Dislivello in salita:
Dislivello in discesa:
Quota massima: 2564 (M. Camicia)
Accesso stradale: Assergi A24
Partecipanti :
Alessandra; Flavia; Lisa (Lisa82); Francesco (Gerifalco); Michele (Michel); Bruno (Bru71); Andrea (Henry Th.)
Descrizione:
Alla fine anche per me è stata la volta di fare in concreto una di quelle classiche cose che vedi raccontate, riferite, fotografate, relazionate fino allo sfinimento, ma che restano sempre vaghe e immaginarie come sfogliare un libro d'avventure finchè non le si prova in pirma persona.
Devo dire la verità: cercando coi motori di ricerca - e oggi questa possibilità rappresenta un vero privilegio rispetto a gran parte del passato ormai quarantennale del Centenario - mi sono imbattuto in innumerevoli relazioni, spesso dettagliate fino alla minuzia relativamente al percorso, alle singole difficoltà, alle vie di fuga, agli accorgimenti tecnici. Parimenti tutte piuttosto generiche con riferimento alle impressioni complessive, ma d'una tale sorprendente omogeneità da sembrare davvero ispirate a una sorta di medesimo format.
I concetti dominanti sono quelli che compongono le tipiche epopee: la fatica, le incertezze, l'appagamento, la soddisfazione.
In alcuni racconti, leggendo tra le righe più in profondità (almeno come ho cercato di fare io scandagliando anche "oltre" le parole scritte) traspare il confronto costante con le proprie forze fisiche, le proprie capacità tecniche e con la propria coscienza, la battaglia interiore tra l'entusiasmo e l'implacabile sincerità di giudizio che si è chiamati a dare verso se stessi ogniqualvolta il sentiero propone, quasi in modo "voluto" e psicologicamente spietato, due contrapposte tentazioni titaniche: quella mesta, grigia ma enormemente rassicurante dell'abbandono anticipato e la sirena ammaliante e radiosa del coronamento dell'impresa.
Come dire, da un lato la metafora della casa che ci attende, e dall'altro quella dell'ignoto che emoziona. Da un lato il richiamo quasi morale di rispettare i propri limiti sottostandovi, dall'altro il lucciore dell'occasione di spostarne un po' più in là il confine, aggiornandolo. Da un lato, la forma razionale della maturità, quella di saper rinunciare; dall'altro, la forma scapestrata e istintiva, quella del cuore gettato oltre l'ostacolo a fissare un salto in avanti nelle proprie esperienze.
Sì, perchè poi chi riesce nell'impresa ha puntualmente l'aria un po' trasognata dello studente appena uscito dall'esame di maturità.
Il Centenario è veramente la "maturità" dell'escursionista, il massimo della completezza che si possa pretendere, almeno a queste latitudini, quella completezza oltre la quale rimane da bucare soltanto il diaframma verso l'alpinismo. C'è il tracciato turistico (sia in salita che in discesa), i saliscendi infiniti, i panorami lontani da ammirare e quelli fin troppo vicini per non restarne quantomeno intimoriti (baratri e strapiombi), terreni di tutti i tipi dall'erba al misto a tutte le possibili varietà di pietrame e in tutte le possibili combinazioni di pendenza. E ancora: la necessità di attrezzature, la costrizione all'uso delle mani che un profano abituato a sentirsela solo sotto i piedi spalanca sulla roccia davvero altri panorami (tutti sensoriali); i canalini dove la roccia si vede così vicina quasi da annusarla e respirarla; e dove si arrampica ricorrendo non a tecniche ma a reconditi e atavici istinti estratti da chissà quali insospettati forzieri interiori.
La parte centrale del percorso sembra la traiettoria che tante piccole formicolanti sonde umane seguono per attraversare tutti i misteriosi organi interni d'un gigantesco corpo quale appare il Massiccio del Gran Sasso. Non solo il cuore, ma il cervello, i bronchi con cui respira, i reni con cui si purifica. E le viscere: le più intricate, contorte, nascoste. A tratti sembra davvero di trovarsi di fronte quell'incredibile ossimoro, cioè il controsenso, che sono le pulsazioni-della-pietra, ossia i movimenti dell'immobile: coi suoi ventricoli, le vene e le arterie, i suoi segretì, saggiando tutto ciò così "dentro", così da vicino come soltanto una sonda può fare, e ammirando spettacoli che nessuna vista da lontano potrà mai regalare. Una visione 'insieme in lontananza intriga per quanto è complessiva e quindi elegante, estetica; invece lì sembra d'essere come il macellaio davanti al suo bancone: tutto sezionato, parziale, perfino sanguinolento (come le pietre che nella loro incessante friabilità non cessano mai un eterno movimento), ma tutto vivo: anzi molto più vivo di certi spettacoli a figura intera talora poco più che cartoline patinate e un po' stucchevoli.
Scalette, corde, imbraghi, mani, un sentiero a tratti talmente a vista e immaginario da essere solo mentale al di là dei segni (peraltro spesso ingannevoli) sono tutte componenti diverse ma il cui comune denominatore è appunto quello di permettere all'escursionista questa esplorazione così "non convenzionale" per l'Appennino; e che rende altrettanto non convenzionali il Centenario e le emozioni che regala proprio nella sua estrema convenzionalità "materiale" dovuta a 40 anni di codificazione e chissà ormai quante migliaia o addirittura milioni di percorrenze.
Su questo percorso più che ammirare la montagna si ammira la pietra: sì, perchè spesso subito dopo snodi, tornanti e scavallamenti che spalancano scorci maestosi ma che parimenti sembrano annientare per la loro apparente insepugnabilità (la domanda che sgorga è: ma dove potrà mai passare il sentiero ?), ebbene l'avvicinamento progressivo svela sempre, puntuale, la vulnerabilità di quei bastioni: per affrontarli basta solo farsi abbastanza "piccoli", in tutti i sensi. Il rispetto delle reciproche dimensioni è tutto ciò che la pietra sembra chiedere per essere esplorata: e di riflesso, dalla pietra, la montagna.
E infine l'altro grande versante di ammirazione che regala questo percorso è quello verso noi stessi. Raramente come in questo caso le sensazioni di ognuno sono così poco autoreferenziali e si compongono invece in modo indelebile e determinante anche di quelle degli altri, specchiandosi nei rispettivi comportamenti.
Come quando ci si spinge avanti (o viceversa si resta indietro) e la scomparsa della vista dei compagni fa sorgere subito l'istinto del ricompattamento molto di più che non in tante altre occasioni. Come quando l'attenzione (ma anche i ripensamenti postumi) cade su aiuti che si danno, si ricevono o si omettono, o si accettano o magari si rifiutano per mettersi alla prova. Come quando, inevitabilmente, qualcuno finisce sempre per prospettare il desiderio di una conclusione anticipata e allora la fatica accumulata fa venir voglia di arrendersi accondiscendendo in massa, complici le varie vie di fuga che sembrano disseminate apposta lungo l'interminabile cresta. in particolare l'ultima, quella al Vado Ferruccio dove di fronte si staglia soltanto l'ultima fatica, il Monte Camicia, e vien da domandarsi se quel gigante possa dare o togliere un senso all'intero percorso fatto fin lì: salvo poi scoprire il suo camino come la chicca finale della completezza. Insomma, è veramente notevole la scia emotiva lasciata da quello che alla fine risulta essere stato un costante gioco di sponda.
La nostra escursione di ieri ha avuto due fasi distinte: una prima metà canonica rispetto sopratutto ai tempi, fino all'Infornace dove abbiamo pranzato. La seconda metà è stata più turistica (come si evince chiaramente dal tempo finale), soprattutto perchè ha cominciato a serpeggiare la tentazione del ritorno anticipato da Vado Ferruccio -dove poi ci siamo effettivamente salutati dividendoci in due gruppi- e quindi a venir meno il pungolo degli orari. Ma tutto questo non ha inficiato la sostanza: anzi, ho maturato l'impressione che questo sia un percorso da fare almeno due volte, riservando la prima alla pura conoscenza.
Posso chiudere solo ringraziando uno ad uno i miei compagni di ieri per un'esperienza che - se proprio un difetto le si trova - paradossalmente è quello di rimpicciolirne un po' molte altre e di indurre a domandarsi perchè non la si sia sperimentata prima.
H.T.
PS: dimenticavo : ORA LE FOTO !!! (che non ho fatto io )
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