E' un ringraziamento davvero particolare quello che mi sento di rivolgere a Cadmo, perchè mi dà l'occasione di spiegare il motivo della scelta del nick, cosa che non avendola fatta finora, pensavo ormai definitivamente archiviata.
Ricordo che è stata una delle rarissime occasioni in cui mi son trovato a piantare in asso la mia cronica indecisione con una scelta che mi è sgorgata immediata, diretta, quasi obbligata dal profondo dell'animo.
Non a caso ho ricordato quel film, "L'attimo fuggente", anno 1989, perchè è ad esso che si deve la mia scoperta di Thoreau, in particolare per quel passo riportato in questo thread che a mio avviso sintetizza il messaggio del film e ne rappresenta il fulcro, e che rimanda a sua volta al "carpe diem" oraziano che dà il titolo al film (come si vede c'è una capacità visionaria nei poeti che attraversa i millenni come i neutrini sanno fare coi chilometri).
Occorre sempre contestualizzare le cose e in certi casi, come questo, diventa indispensabile: riuscirebbe infatti difficile capire certe apparenti enfasi e retoriche a chi per ragioni anagrafiche non ha avuto modo di vivere da adolescente quel decennio al cui termine "irruppe" appunto il film. Gli anni '80 erano stati il decennio dell'eccesso, dell'ostentazione, della Milano da bere, gli anni in cui le reti private Mediaset sono diventate il duopolista televisivo che conosciamo oggi suonando tutti i tasti più retrivi della tv commerciale: dalle televendite a mitraglia ai programmi demanziali, come quel "Drive in" dove si mescolavano Ezio Greggio, Gianfranco D'Angelo e Giorgio Faletti (all'epoca la guardai giurata Vito Catozzo e non lo "scrittore" di oggi) e a un certo punto addirittura comparve come guitto anche il figlio del nostro premier, sì, proprio Piersilvio: diciassettenne, ciuffo cotonato, trattamenti estetici identici a quelli del padre. Non so quanto ricordano di quell'epoca i cosiddetti "paninari" a cui il Drive In faceva eco: vale a dire orde di giovinastri la colonna sonora della cui vita era rigorosamente l'esaltazione del branco, basato sulla distinzione secca, feroce, tra "in" e "out" laddove tale distinzione a sua volta era di natura assolutamente e puramente consumistica, nulla di ideologico. Se avevi la tal maglietta, la tal etichetta, i tali occhiali, i tali jeans, le tali scarpe, il tale zaino, ecc. ecc. allora eri degno di rispetto; altrimenti di denigrazione. E addirittura questa sorta di "movimento paninaro" aveva in edicola i suoi giornaletti con tanto di rubriche che scansionavano impietosamente "in" e out" di tutto: negozi di abbigliamento, luoghi di ritrovo, attività, persino modi di approcciare l'altro sesso. Insomma, la quintessenza dell'apparire rispetto all'essere, l'omologazione elevata a feticcio; l'opprimente tirannide dei "fighetti"; cose che chi in quegli anni era liceale ha vissuto davvero sulla propria pelle e che chi è venuto dopo faticherebbe a immaginare cosa volessero dire nella quotidianità per chiunque non fosse "allineato".
E proprio sulla base di questo si può comprendere meglio la potenza liberatoria di quel film, il suo messaggio dirompente (i brani riassunti nel link ne sono solo alcuni esempi) e l'emozione che suscitò soprattutto in quelli che - come me - avevano visto "bruciati" i propri anni migliori sul falò di una sorta di "68 rovesciato".
Fu un po' come riconoscervisi in pieno da prim'ancora di vederlo; fu come veder soddisfatta una lunga attesa di vedersi riflessi allo specchio da qualcun altro in grado di farlo.
Il merito fu del regista, Peter Weir, di uno straordinario Robin Williams (a mio avviso uno degli attori più versatili degli ultimi 20 anni) e di tutto il cast...ma in realtà pensandoci meglio il merito si inoltrava a ritroso nel tempo verso tutti quegli uomini le cui parole e i cui pensieri costituiscono l'intelaiatura del film, a cominciare appunto da Henry David Thoreau.
Ho scritto che per me fu una folgorazione ma paradossalmente l'emozione di adesso nel ricordarlo - seppure più pacata, smussata, temperata dal tempo trascorso - è maggiore di quella che ebbi nel vederlo: per il semplice fatto di rendermi conto che non fu fatua, e che ha lasciato un segno. E questo posso dirlo solo adesso.
Non è una cosa da poco sentire "confermate" quelle che sono intime convinzioni a 15 o 20 anni, confermate da altri, vedere che non rappresentano qualcosa di alieno ma anzi un anelito "senza tempo" perchè espresso anche da persone vissute anche 50, 100, 200 anni prima. Ancor meno cosa da poco in quanto questo sgretola l'apparente ineluttabilità di certi ideali, comportamenti, aspirazioni che ti vedi di fronte (quelli appunto di quel famogerato decennio) e ne rivela la loro fatuità.
E' una sensazione fantastica percepire di star vincendo l'atavica paura dell'esclusione, quella che genera le "vite di quieta disperazione" di cui parla il professor Keating ai ragazzi.
La forza di quel film, pur con qualche sbavatura retorica, derivò quindi anche dalla tempistica con cui apparve: e stette nella capacità di far pienamente immedesimare chi proveniva da anni nei quali si era sentito "prigioniero nell'animo".
La forza del film e quindi la forza di Thoreau, di Keats, e di tutti gli altri.
Credo che si comprenderà meglio, alla luce di tutto ciò, come per me scegliere quel nick sia stato un tutt'uno con la mia presentazione; è stato proprio come "sintetizzare" in un nome un bel po' del mio modo di essere, anzi proprio del mio "essere". Che non è l'infatuazione per un cumulo di aforismi ad effetto, ma viverli in pieno nelle convinzioni e nella concretezza della propria quotidianità.
A questo punto vorrei spendere due parole su "Walden" ma mi sono già sicuramente meritato le bacchettate di Squob e il suo demoralizzante "mi dispiace, è troppo lungo"
Un saluto