- Parchi della Valle d'Aosta
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- Massiccio del Monte Bianco
Dati
Data: 18 - 25 febbraio 2018
Regione e provincia: Val D'Aosta
Località di partenza: Courmayeur
Località di arrivo: Courmayeur
Chi : Io e il nostro admin Andrea DB
Descrizione
Metà febbraio per Courmayeur è l'equivalente del Ferragosto : affollatissima e fricchettona, un caravanserraglio, sembra buona per ambientarci una commedia dei Vanzina. Carovane di gente che al tramonto torna a casa dalle piste, sci in spalla e scarponi ai piedi. Pizzerie e ristoranti che s'apprestano a serate febbrili.
In un simile contesto, sembra comico ripensare alla celebre frase di Messner : "A chi mi chiede < perché vai in montagna ? > rispondo : < se me lo chiedi, non lo saprai mai > ".
Comico perchè allude con un tono quasi filosofico a qualcosa di impossibile da descrivere, mentre invece per quel tipo di frequentatori basterebbero appena due parole a spiegare la più banale delle ragioni : siamo qui per la settimana bianca.
In realtà, escludendo la categoria dei turisti-sciatori stagionali, quante volte ci siamo trovati a riscontrare quanto sia vero il pensiero di Messner per chi la montagna la frequenta un po' più assiduamente ?
Sì, perché in fondo chi va in montagna per viverla è spesso una persona inquieta, inappagata, alla ricerca di qualcosa, che si sente stretti gli abiti che indossa. E come tale si tratterebbe di spiegare all'interlocutore un'intera concezione di vita in buona parte alternativa a quella, quieta e assuefatta, che quest'ultimo già ha. Equivarrebbe a dover(gli) completamente rielaborare e rimodellare concetti, valori, qualità, sensazioni, insomma intere categorie dello spirito rispetto a come sono comunemente intese : il piacere; l'utilità; l'estetica; l'attenzione.
Significherebbe, ad esempio, sapergli dimostrare che forse la vera galera dei tempi moderni è la comodità : dorata, sottile, invisibile, ma pur sempre una galera. Come ci si può persuadere di un simile paradosso, a parole, senza provare fisicamente sulla propria pelle la libertà di uscire da quella gabbia ?
Quindi è così : un terreno dove la dialettica rasenta l' impossibile.
Eppure, tra gli innumerevoli moventi del salire in quota, che non basterebbe un libro a spiegare, a volte si può riuscire a captarne e tradurne alcuni in modo nitido e preciso.
Era inizio dicembre quando quest'inverno si lasciò intuire che fosse finalmente "vero", e fin da allora, considerato l'andazzo degli ultimi anni, mi ripromisi che sarebbe stato un delitto non approfittarne. Il proposito è diventato poi certezza allorchè lassù, in quello spicchio di Alpi, esso si è inasprito in modo epocale : come non se ne vedevano da tre o quattro decenni. Un inverno così spettacolarmente estremo mai come stavolta reclamava di essere vissuto: almeno un brandello, un assaggio, sufficiente a sentirne il sapore.
L'inverno e la montagna sono un connubio che, oserei dire, vien da sè. E' in esso che la Natura sa meglio esprimere una delle sue capacità più formidabili : cambiare i connotati d'un paesaggio, e persino stravolgerli, riuscendo a lasciarne inalterata la bellezza. L'esatto opposto di quanto fa l'uomo, il quale ogni volta che interviene a modificare qualcosa, riesce quasi sempre a rovinare e a degradare. Per questo la montagna instilla la curiosità e fomenta l'irresistibile attrazione di essere provata in ogni possibile condizione, in ogni suo cambio d'abito stagionale, in ogni suo mese, in ogni sua ora del giorno e della notte : non se ne è mai sazi, proprio perchè - ad onta della convinzione di chi non la conosce - non riesce ad annoiare.
C'è stato dunque il desiderio di sperimentare momenti nei quali l'abito più ruvido e glaciale era indossato ovunque, non solo su vette, pareti e pinnacoli, ma anche nei fondivalle, sui sentieri, negli anfratti più remoti, tra le case dei paesi. Con una luce avara, un gelo che attanaglia e una neve che seppellisce.
Ma in realtà sotto questo movente superficiale ce ne erano altri più profondi , due in particolare. Tanto opposti, quanto complementari.
Innanzitutto, il desiderio di solitudine. Ci sono momenti nei quali sembra d'essere assediati da un turbinio di persone che, con la fastidiosità degli insetti, riescono a privarti della solitudine senza minimamente riuscire a far compagnia, proprio come scriveva Nietzche : "Odio le persone che mi tolgono la solitudine, senza farmi compagnia". In ogni contesto quotidiano ci si ritrova immersi in una ragnatela di rapporti tanto onnipresenti e intrusivi, quanto impalpabili come ologrammi. E basati su una comunicazione compulsiva ma priva di sostanza. Detto in modo poco elegante, molte volte non si riesce più a fare a meno di starsi cordialmente tra i piedi: cosa ben diversa dalla "compagnia".
E' allora che sale da dentro il desiderio della compagnia esclusiva di se stessi. E la montagna d'inverno è esattamente ciò che permette di soddisfarlo.
La giornata solitaria ideale nella montagna invernale è intrisa come una spugna di vagabondaggio. Il cammino vagabondo non è tanto l'essere privi di un obiettivo quanto, piuttosto, mantenersi liberi e scevri dal suo "obbligo", dall'ossessione di fallirlo. Trasformarlo da preciso ad approssimativo, una sorta di "varia ed eventuale" in un ordine del giorno. Questo fa sì che anzichè "frustarsi" per centellinare, economizzare e concentrare tutte le proprie energie fisiche e mentali su di esso, le si possa invece dissipare senza remore : sulle decisioni istintive e improvvisate; sui cambi di rotta. Fa sì che si possano togliere le briglie ai pensieri e lasciarli fluire e straripare in libertà, assecondando la loro natura volubile, anzichè tenerli al guinzaglio e al servizio d'uno scopo tutto pratico.
Ebbene, sembra un paradosso, ma in questo il vagabondaggio non è forse l'esatto opposto dell'alpinismo ? Già ! Il trionfo dell'approssimazione rispetto a quello della precisione. Non sono mai stato del tutto d'accordo con l'espressione che vuole gli alpinisti "conquistatori dell'inutile", perchè per onestà intellettuale bisognerebbe ammettere che la piccola gloria, o il panorama da una vetta, o l'obiettivo in sè della "riuscita" e della conseguente autostima sono, in fondo, una forma di "utile" remunerativo per quanto immateriale. L'inutilità più cruda è nel vagabondaggio, che sta all'alpinismo come la poesia alla ragioneria, l'emotività al raziocinio. La montagna sa dunque anche sintetizzare le antitesi, unire in simbiosi sotto lo stesso tetto - il cielo - il verticale e l'orizzontale. Che non sono soltanto diverse pendenze del terreno ma anche le due dimensioni del pensiero. In fondo è il passaggio che fece Bonatti, quando smise i panni dell'alpinista per antonomasia, per diventare esploratore.
La montagna d'inverno cambia la predisposizione d'animo.
A differenza dell'estate, una giornata tersa e serena sembra un dono del cielo, e instilla una specie di frenesia di onorarla a dovere, una frenesia ben diversa da quella della quotidianità.
Si prende e si va, ed il cammino è un po' come sorseggiare da un calice a piccole dosi una bevanda troppo inebriante per essere ingurgitata in fretta.
L'infinita bellezza di una valle squarciata dalla luce dove il bianco algido e spaziale della neve abbaglia ed avvolge. Un cimitero di valanghe le cui zolle candide giacciono esanimi in distese che coprono ogni residuo della civiltà.
Ma anche la bellezza del maltempo, che acquisisce un suo coreografico fascino quando nelle più frequenti giornate grigie e nevose ci si mimetizza e ci si confonde nella magica evanescenza di tutto quanto circonda. Quanto appare sideralmente lontano il maltempo "cittadino", sinonimo di nevrastenico caos.
Si avverte l'infinito contrasto di sentirsi "fuori" dal mondo ma allo stesso tempo "dentro" come non mai, ancoràti alla terra nella sua essenzialità e primordialità.
Si prova l'infinita pace: "la neve e il suo magnifico silenzio. Non ce n'è un altro che valga il nome di silenzio, oltre quello della neve sul tetto e sulla terra" (Erri De Luca, Il peso della farfalla).
E' stupefacente la capacità rigeneratrice dei luoghi saturi di solitudine, che respirata passo dopo passo come un aerosol si trasforma in una linfa vitale.
Depura le scorie dell'animo, lubrifica quelle corde e scioglie quei cappi che fino a un attimo prima si erano sempre percepiti e creduti annodati al collo da altri, facendo rendere conto di esserseli stretti da soli.
Eppure, ecco che basta il calare del buio, basta che ci si fermi e che i panorami sconfinati si riducano a qualche muro... e la montagna d'inverno, in un attimo, può trasformarsi anche in infinita oppressione, da sogno ad incubo. La solitudine da guanto caldo diviene fredda e pungente; non è più cercata ma subìta, non è più una scelta ma una necessità. La montagna da madre si fa matrigna e te la impone, che ti piaccia o meno, costringendoti a saper sopportare l'altro suo lato, quello della durezza. Durezza psicologica prim'ancora che fisica : quando Bonatti sosteneva che essa sa "mettere alla prova" l'uomo, ebbene d'inverno ciò avviene senz'altro più nei gelidi fondovalle che sulle pareti verticali, quando lo stato d'animo può collassare più ancora del termometro. Non si può provare, non si può capire questo se non vivendo la montagna d'inverno senza poter ricorrere alla via di fuga del ritorno a casa, magari in città.
E' in quel preciso momento che il desiderio di solitudine trascolora in quello di condivisione. E infatti questo è stato il secondo movente. Che in realtà è sopraggiunto soltanto dopo, provvidenziale, perchè l'intenzione originaria era appunto di andar da solo.
Non c'è calore di fuoco, stufa o camino in grado di confortare quanto quello di un amico che, fino a quel momento, sia stato capace di essere anche "compagno di montagna".
Non è la stessa cosa : si può essere compagni di montagna senza essere necessariamente amici, o viceversa.
Essere compagni di montagna significa unirsi in legami di utilità e necessità - a cominciare dal più classico, quello di corda nell'alpinismo - mantenendo e rispettando le rispettive solitudini, il diaframma emotivo, rimanendo nei propri microcosmi individuali. Ma tornati a fondovalle, ci si slega e ci si separa. Ognuno per la sua strada.
E siccome ciò avviene al crepuscolo della giornata, proprio quando la montagna d'inverno comincia ad opprimere, è allora che per sopportarla serve svestire il legame dalla guaina della pura necessità, ed avere una ragione affinchè sia una scelta: in altre parole, occorre essere amici "oltre" che compagni di montagna. La frase di Nietzche può allora essere ribaltata : "Amo le persone che sanno farmi compagnia lasciandomi la solitudine".
Già. Persone simili sono quasi introvabili, e servono anni per costruire certi legami che siano di necessità ma anche di scelta.
Ma se si ha la fortuna di averli, allora la montagna dopo aver fatto riassaporare la solitudine permette di riscoprire anche il senso e il piacere della parola "condivisione" nel suo significato letterale ed autentico, non quello usurpato e banalizzato dai social : "dividere-con" qualcuno (materialmente e fisicamente) tempo, pensieri, emozioni, in una parola tutto ciò che compone un'esperienza a 360°, in tutte le sue sfaccettature. Così, due cose opposte diventano sequenziali e complementari.
Le sere trascorse in casa nella montagna d'inverno in compagnia d'un amico che l'ha vissuta distillàndone ogni istante come te - e spesso per proprio conto come te - sono un crogiolo dove la condivisione di una cena, d'uno stato d'animo, dell'imprinting della giornata appena vissuta, d'un ricordo, d'una risata, di una miriade di riflessioni e pensieri vaganti si fonde calda e filante come la fontina in una polenta. Finalmente ci si sorprende a parlare, nel vero senso del termine, rendendosi conto di quanta vita si perda in semplici epidermiche chiacchiere, o addirittura in balbuzie.
E così, sera dopo sera, si acquisisce il distacco necessario per mettere a fuoco le cose, guardarle in filigrana, anche e soprattutto cose completamente estranee al contesto quell'esperienza che si credeva d'aver lasciate alla spalle, "fuori della porta", e invece rientrano più pressanti che mai. Così, alcune inquietudini si stemperano mentre altre riemergono. Certe convinzioni incrollabili vacillano, mentre altre vacillanti si solidificano. Certi pensieri da cui sembrava di essere fuggiti, ora sembra di affrontarli a viso aperto. Appaiono comiche cose che si credevano serie, mentre appaiono serie cose regolarmente trascurate o sulle quali rideva, ma solo per esorcizzarle. Una tra tante, ma eloquente : "Come passa il tempo!" detto con un sorriso posticcio, per non pensare a quello sprecato ed irrecuperabile.
A volte la vita appare come un'immensa lastra di ghiaccio inclinata su cui il tempo, i giorni scivolano senza attrito, senza opporre resistenza, senza lasciare traccia, neppure un graffio su quel ghiaccio. Ecco, nel tornare a quella vita, nel riscendere dall'aria sottile alle polveri sottili, giorni come questi vissuti in solitudine e in condivisione sembrano colpi di piccozza assestati su quella lastra, che hanno almeno permesso di fermarsi, di smettere di scivolare.
Le foto ne hanno colto soltanto la punta dell'iceberg, forse proprio la parte meno solitaria e meno introspettiva. In fondo i clic sono momenti strappati all'intimità dei pensieri, il male necessario a conservarne un ricordo visivo, perché quello vero, della memoria interiore, non ne ha bisogno.
Grazie Andrea, potrei dire d'averti conosciuto più in sette giorni che in sette anni (che già non era poco, il che rende l'idea): ma in realtà non è così, perché fatalmente cambiamo e quindi altrettanto fatalmente qualsiasi conoscenza, per quanto grande e profonda, diventa obsoleta. A un certo punto è come guardare una persona nello specchietto retrovisore, sicchè diventa necessario ri-conoscersi. Perciò sarebbe appunto più corretto dire d'averti ri-conosciuto anzichè averti conosciuto di più.
Citando Baudelaire, ci siamo detti cose che non possono morire.
Però, se lo vuoi sapere, forse tra queste la nostalgia che riassumerà tutte le altre sta in quel tuo "Ho ! Ma chi è stato ?"

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Data: 18 - 25 febbraio 2018
Regione e provincia: Val D'Aosta
Località di partenza: Courmayeur
Località di arrivo: Courmayeur
Chi : Io e il nostro admin Andrea DB
Descrizione
Metà febbraio per Courmayeur è l'equivalente del Ferragosto : affollatissima e fricchettona, un caravanserraglio, sembra buona per ambientarci una commedia dei Vanzina. Carovane di gente che al tramonto torna a casa dalle piste, sci in spalla e scarponi ai piedi. Pizzerie e ristoranti che s'apprestano a serate febbrili.
In un simile contesto, sembra comico ripensare alla celebre frase di Messner : "A chi mi chiede < perché vai in montagna ? > rispondo : < se me lo chiedi, non lo saprai mai > ".
Comico perchè allude con un tono quasi filosofico a qualcosa di impossibile da descrivere, mentre invece per quel tipo di frequentatori basterebbero appena due parole a spiegare la più banale delle ragioni : siamo qui per la settimana bianca.
In realtà, escludendo la categoria dei turisti-sciatori stagionali, quante volte ci siamo trovati a riscontrare quanto sia vero il pensiero di Messner per chi la montagna la frequenta un po' più assiduamente ?
Sì, perché in fondo chi va in montagna per viverla è spesso una persona inquieta, inappagata, alla ricerca di qualcosa, che si sente stretti gli abiti che indossa. E come tale si tratterebbe di spiegare all'interlocutore un'intera concezione di vita in buona parte alternativa a quella, quieta e assuefatta, che quest'ultimo già ha. Equivarrebbe a dover(gli) completamente rielaborare e rimodellare concetti, valori, qualità, sensazioni, insomma intere categorie dello spirito rispetto a come sono comunemente intese : il piacere; l'utilità; l'estetica; l'attenzione.
Significherebbe, ad esempio, sapergli dimostrare che forse la vera galera dei tempi moderni è la comodità : dorata, sottile, invisibile, ma pur sempre una galera. Come ci si può persuadere di un simile paradosso, a parole, senza provare fisicamente sulla propria pelle la libertà di uscire da quella gabbia ?
Quindi è così : un terreno dove la dialettica rasenta l' impossibile.
Eppure, tra gli innumerevoli moventi del salire in quota, che non basterebbe un libro a spiegare, a volte si può riuscire a captarne e tradurne alcuni in modo nitido e preciso.
Era inizio dicembre quando quest'inverno si lasciò intuire che fosse finalmente "vero", e fin da allora, considerato l'andazzo degli ultimi anni, mi ripromisi che sarebbe stato un delitto non approfittarne. Il proposito è diventato poi certezza allorchè lassù, in quello spicchio di Alpi, esso si è inasprito in modo epocale : come non se ne vedevano da tre o quattro decenni. Un inverno così spettacolarmente estremo mai come stavolta reclamava di essere vissuto: almeno un brandello, un assaggio, sufficiente a sentirne il sapore.
L'inverno e la montagna sono un connubio che, oserei dire, vien da sè. E' in esso che la Natura sa meglio esprimere una delle sue capacità più formidabili : cambiare i connotati d'un paesaggio, e persino stravolgerli, riuscendo a lasciarne inalterata la bellezza. L'esatto opposto di quanto fa l'uomo, il quale ogni volta che interviene a modificare qualcosa, riesce quasi sempre a rovinare e a degradare. Per questo la montagna instilla la curiosità e fomenta l'irresistibile attrazione di essere provata in ogni possibile condizione, in ogni suo cambio d'abito stagionale, in ogni suo mese, in ogni sua ora del giorno e della notte : non se ne è mai sazi, proprio perchè - ad onta della convinzione di chi non la conosce - non riesce ad annoiare.
C'è stato dunque il desiderio di sperimentare momenti nei quali l'abito più ruvido e glaciale era indossato ovunque, non solo su vette, pareti e pinnacoli, ma anche nei fondivalle, sui sentieri, negli anfratti più remoti, tra le case dei paesi. Con una luce avara, un gelo che attanaglia e una neve che seppellisce.
Ma in realtà sotto questo movente superficiale ce ne erano altri più profondi , due in particolare. Tanto opposti, quanto complementari.
Innanzitutto, il desiderio di solitudine. Ci sono momenti nei quali sembra d'essere assediati da un turbinio di persone che, con la fastidiosità degli insetti, riescono a privarti della solitudine senza minimamente riuscire a far compagnia, proprio come scriveva Nietzche : "Odio le persone che mi tolgono la solitudine, senza farmi compagnia". In ogni contesto quotidiano ci si ritrova immersi in una ragnatela di rapporti tanto onnipresenti e intrusivi, quanto impalpabili come ologrammi. E basati su una comunicazione compulsiva ma priva di sostanza. Detto in modo poco elegante, molte volte non si riesce più a fare a meno di starsi cordialmente tra i piedi: cosa ben diversa dalla "compagnia".
E' allora che sale da dentro il desiderio della compagnia esclusiva di se stessi. E la montagna d'inverno è esattamente ciò che permette di soddisfarlo.
La giornata solitaria ideale nella montagna invernale è intrisa come una spugna di vagabondaggio. Il cammino vagabondo non è tanto l'essere privi di un obiettivo quanto, piuttosto, mantenersi liberi e scevri dal suo "obbligo", dall'ossessione di fallirlo. Trasformarlo da preciso ad approssimativo, una sorta di "varia ed eventuale" in un ordine del giorno. Questo fa sì che anzichè "frustarsi" per centellinare, economizzare e concentrare tutte le proprie energie fisiche e mentali su di esso, le si possa invece dissipare senza remore : sulle decisioni istintive e improvvisate; sui cambi di rotta. Fa sì che si possano togliere le briglie ai pensieri e lasciarli fluire e straripare in libertà, assecondando la loro natura volubile, anzichè tenerli al guinzaglio e al servizio d'uno scopo tutto pratico.
Ebbene, sembra un paradosso, ma in questo il vagabondaggio non è forse l'esatto opposto dell'alpinismo ? Già ! Il trionfo dell'approssimazione rispetto a quello della precisione. Non sono mai stato del tutto d'accordo con l'espressione che vuole gli alpinisti "conquistatori dell'inutile", perchè per onestà intellettuale bisognerebbe ammettere che la piccola gloria, o il panorama da una vetta, o l'obiettivo in sè della "riuscita" e della conseguente autostima sono, in fondo, una forma di "utile" remunerativo per quanto immateriale. L'inutilità più cruda è nel vagabondaggio, che sta all'alpinismo come la poesia alla ragioneria, l'emotività al raziocinio. La montagna sa dunque anche sintetizzare le antitesi, unire in simbiosi sotto lo stesso tetto - il cielo - il verticale e l'orizzontale. Che non sono soltanto diverse pendenze del terreno ma anche le due dimensioni del pensiero. In fondo è il passaggio che fece Bonatti, quando smise i panni dell'alpinista per antonomasia, per diventare esploratore.
La montagna d'inverno cambia la predisposizione d'animo.
A differenza dell'estate, una giornata tersa e serena sembra un dono del cielo, e instilla una specie di frenesia di onorarla a dovere, una frenesia ben diversa da quella della quotidianità.
Si prende e si va, ed il cammino è un po' come sorseggiare da un calice a piccole dosi una bevanda troppo inebriante per essere ingurgitata in fretta.
L'infinita bellezza di una valle squarciata dalla luce dove il bianco algido e spaziale della neve abbaglia ed avvolge. Un cimitero di valanghe le cui zolle candide giacciono esanimi in distese che coprono ogni residuo della civiltà.
Ma anche la bellezza del maltempo, che acquisisce un suo coreografico fascino quando nelle più frequenti giornate grigie e nevose ci si mimetizza e ci si confonde nella magica evanescenza di tutto quanto circonda. Quanto appare sideralmente lontano il maltempo "cittadino", sinonimo di nevrastenico caos.
Si avverte l'infinito contrasto di sentirsi "fuori" dal mondo ma allo stesso tempo "dentro" come non mai, ancoràti alla terra nella sua essenzialità e primordialità.
Si prova l'infinita pace: "la neve e il suo magnifico silenzio. Non ce n'è un altro che valga il nome di silenzio, oltre quello della neve sul tetto e sulla terra" (Erri De Luca, Il peso della farfalla).
E' stupefacente la capacità rigeneratrice dei luoghi saturi di solitudine, che respirata passo dopo passo come un aerosol si trasforma in una linfa vitale.
Depura le scorie dell'animo, lubrifica quelle corde e scioglie quei cappi che fino a un attimo prima si erano sempre percepiti e creduti annodati al collo da altri, facendo rendere conto di esserseli stretti da soli.
Eppure, ecco che basta il calare del buio, basta che ci si fermi e che i panorami sconfinati si riducano a qualche muro... e la montagna d'inverno, in un attimo, può trasformarsi anche in infinita oppressione, da sogno ad incubo. La solitudine da guanto caldo diviene fredda e pungente; non è più cercata ma subìta, non è più una scelta ma una necessità. La montagna da madre si fa matrigna e te la impone, che ti piaccia o meno, costringendoti a saper sopportare l'altro suo lato, quello della durezza. Durezza psicologica prim'ancora che fisica : quando Bonatti sosteneva che essa sa "mettere alla prova" l'uomo, ebbene d'inverno ciò avviene senz'altro più nei gelidi fondovalle che sulle pareti verticali, quando lo stato d'animo può collassare più ancora del termometro. Non si può provare, non si può capire questo se non vivendo la montagna d'inverno senza poter ricorrere alla via di fuga del ritorno a casa, magari in città.
E' in quel preciso momento che il desiderio di solitudine trascolora in quello di condivisione. E infatti questo è stato il secondo movente. Che in realtà è sopraggiunto soltanto dopo, provvidenziale, perchè l'intenzione originaria era appunto di andar da solo.
Non c'è calore di fuoco, stufa o camino in grado di confortare quanto quello di un amico che, fino a quel momento, sia stato capace di essere anche "compagno di montagna".
Non è la stessa cosa : si può essere compagni di montagna senza essere necessariamente amici, o viceversa.
Essere compagni di montagna significa unirsi in legami di utilità e necessità - a cominciare dal più classico, quello di corda nell'alpinismo - mantenendo e rispettando le rispettive solitudini, il diaframma emotivo, rimanendo nei propri microcosmi individuali. Ma tornati a fondovalle, ci si slega e ci si separa. Ognuno per la sua strada.
E siccome ciò avviene al crepuscolo della giornata, proprio quando la montagna d'inverno comincia ad opprimere, è allora che per sopportarla serve svestire il legame dalla guaina della pura necessità, ed avere una ragione affinchè sia una scelta: in altre parole, occorre essere amici "oltre" che compagni di montagna. La frase di Nietzche può allora essere ribaltata : "Amo le persone che sanno farmi compagnia lasciandomi la solitudine".
Già. Persone simili sono quasi introvabili, e servono anni per costruire certi legami che siano di necessità ma anche di scelta.
Ma se si ha la fortuna di averli, allora la montagna dopo aver fatto riassaporare la solitudine permette di riscoprire anche il senso e il piacere della parola "condivisione" nel suo significato letterale ed autentico, non quello usurpato e banalizzato dai social : "dividere-con" qualcuno (materialmente e fisicamente) tempo, pensieri, emozioni, in una parola tutto ciò che compone un'esperienza a 360°, in tutte le sue sfaccettature. Così, due cose opposte diventano sequenziali e complementari.
Le sere trascorse in casa nella montagna d'inverno in compagnia d'un amico che l'ha vissuta distillàndone ogni istante come te - e spesso per proprio conto come te - sono un crogiolo dove la condivisione di una cena, d'uno stato d'animo, dell'imprinting della giornata appena vissuta, d'un ricordo, d'una risata, di una miriade di riflessioni e pensieri vaganti si fonde calda e filante come la fontina in una polenta. Finalmente ci si sorprende a parlare, nel vero senso del termine, rendendosi conto di quanta vita si perda in semplici epidermiche chiacchiere, o addirittura in balbuzie.
E così, sera dopo sera, si acquisisce il distacco necessario per mettere a fuoco le cose, guardarle in filigrana, anche e soprattutto cose completamente estranee al contesto quell'esperienza che si credeva d'aver lasciate alla spalle, "fuori della porta", e invece rientrano più pressanti che mai. Così, alcune inquietudini si stemperano mentre altre riemergono. Certe convinzioni incrollabili vacillano, mentre altre vacillanti si solidificano. Certi pensieri da cui sembrava di essere fuggiti, ora sembra di affrontarli a viso aperto. Appaiono comiche cose che si credevano serie, mentre appaiono serie cose regolarmente trascurate o sulle quali rideva, ma solo per esorcizzarle. Una tra tante, ma eloquente : "Come passa il tempo!" detto con un sorriso posticcio, per non pensare a quello sprecato ed irrecuperabile.
A volte la vita appare come un'immensa lastra di ghiaccio inclinata su cui il tempo, i giorni scivolano senza attrito, senza opporre resistenza, senza lasciare traccia, neppure un graffio su quel ghiaccio. Ecco, nel tornare a quella vita, nel riscendere dall'aria sottile alle polveri sottili, giorni come questi vissuti in solitudine e in condivisione sembrano colpi di piccozza assestati su quella lastra, che hanno almeno permesso di fermarsi, di smettere di scivolare.
Le foto ne hanno colto soltanto la punta dell'iceberg, forse proprio la parte meno solitaria e meno introspettiva. In fondo i clic sono momenti strappati all'intimità dei pensieri, il male necessario a conservarne un ricordo visivo, perché quello vero, della memoria interiore, non ne ha bisogno.
Grazie Andrea, potrei dire d'averti conosciuto più in sette giorni che in sette anni (che già non era poco, il che rende l'idea): ma in realtà non è così, perché fatalmente cambiamo e quindi altrettanto fatalmente qualsiasi conoscenza, per quanto grande e profonda, diventa obsoleta. A un certo punto è come guardare una persona nello specchietto retrovisore, sicchè diventa necessario ri-conoscersi. Perciò sarebbe appunto più corretto dire d'averti ri-conosciuto anzichè averti conosciuto di più.
Citando Baudelaire, ci siamo detti cose che non possono morire.
Però, se lo vuoi sapere, forse tra queste la nostalgia che riassumerà tutte le altre sta in quel tuo "Ho ! Ma chi è stato ?"

Allegati
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