Krakauer, un investigatore dell'avventura

Vivere è saper rischiare: intervista a Jon Krakauer




Con la biografia di Christopher McCandless, Nelle terre estreme, ha affascinato dieci anni fa Sean Penn che ora è riuscito finalmente a farne la trasposizione cinematografica. Ha conquistato i lettori americani, allora e oggi, dato che sia nel 1996, quando il libro è uscito, che lo scorso anno quando è stato ripubblicato sulla scia del film di Penn, lo hanno fatto salire nelle prime posizioni delle classifiche di vendita. Di certo appassionerà anche i lettori italiani perché la storia di vita che racconta, la passione nel parlare di Chris e delle sue scelte estreme, coinvolgono e fanno riflettere, prendono il cuore e accendono l'animo di ogni persona sensibile.

Come hai iniziato a scrivere, qual è stata la tua formazione?
Non ho mai studiato scrittura ma sono sempre stato un lettore e ho sempre avuto il desiderio segreto di diventare scrittore. Per la mia attività di alpinista sono stato in Alaska per la prima volta nel 1974 a Arrigetch Peaks nel Brooks Range e ho fatto tre salite/scalate di cime mai scalate. L’American Alpine Club ha una rivista, The American Alpine Journal, che pubblicano ogni anno e che è una raccolta delle scalate più importanti in tutto il mondo e mi hanno invitato a scrivere un articolo per loro a proposito di queste scalate. Quello fu il primo articolo che scrissi. Tre anni dopo fui pagato per la prima volta per raccontare quando scalai il Devil’s Thumb e scrissi di questo per la rivista inglese Mountain (ora chiusa). Poi un amico e compagno di scalate, il mio “mentore della scrittura” David Roberts, lasciò il suo lavoro di insegnante all’Hampshire College, dove sono andato anch’io, per fare il redattore a Horizon. Dopo un anno lasciò la rivista per l’attività freelance e mi disse come funziona la faccenda delle lettere di proposta convincendomi a seguire il suo esempio. Ho fatto a tempo perso il giornalista freelance per un paio d’anni e nel 1983 ho lasciato il mio lavoro di falegname e da qual momento ho sempre scritto.

Come è stato il passaggio alla carta stampata?
Sapevo che non avrei potuto vivere semplicemente scrivendo di attività all’aria aperta così ho fatto uno sforzo per scrivere anche di altri temi. Sono stato falegname e ho scritto di architettura per Architectural Digest. Sono stato pescatore così ho contattato Smithsonian a proposito di un’attività di pesca in Alaska e mi ci hanno mandato. Ho contattato Rolling Stone per le camminate sui carboni ardenti, le passeggiate nel fuoco e hanno deciso di farmi scrivere rischiando. Ho provato a scrivere per i giornali locali di Seattle e ho capito che essere pubblicati da un giornale locale è difficile quanto essere pubblicati da un giornale nazionale e i giornali locali pagano un decimo dei nazionali, così ho detto: vaffanculo la roba locale. Stavo raggiungendo la quota di dieci lettere di proposta a settimana, e lavoravo davvero sodo, ma sono stato fortunato. Siccome volevo pagare l’affitto, non avevo grandi ambizioni di diventare un artista. Volevo pagare quei maledetti conti, così lavoravo davvero sodo. Capii che quello che scrivevo per Rolling Stone doveva essere ben diverso da quello per Smithsonian, e davo loro quello che volevano, volevo vendere l’articolo. Fu utile, come scrittore, provare voci diverse e fu anche intelligente, furbo, dal punto di vista economico.

Quali altri argomenti dei quali ha scritto l’hanno interessato?
Il problema è che nessuno mi ha interessato come i pezzi sulle attività all’aria aperta. Gli articoli che ho scritto per Outside magazine sono i migliori e sono tutti sulla natura. Ecco perché la maggior parte dei testi di Eiger Dreams erano stati pubblicati originariamente su Outside o Smithsonian. È difficile pensare a pezzi che davvero mi piacciono e che non sono su attività all’aria aperta.

Com’è stato il passaggio dai brevi articoli per le riviste al taglio narrativo di un libro?

È stato davvero soddisfacente. Mi piace molto fare delle ricerche e, se calcolo tutti gli articoli, ho fatto abbastanza ricerche per scrivere un libro. In quasi ogni articolo che ho scritto, mi sembrava di non aver reso giustizia alla storia, come se fosse solo un commento. Così scrivere un libro e trascorrere un anno o due e raccontare nel modo giusto la storia è davvero soddisfacente e dopo averlo fatto è difficile tornare indietro e scrivere articoli per le riviste.

A cosa sta lavorando ora?
Sono sei settimane in ritardo su un articolo per National Geographic a proposito di un viaggio nel cuore dell’Antartide, in un posto chiamato Queen Maud Land, dove ho fatto delle scalate con Alex Lowe, probabilmente il miglior alpinista del mondo.

Molti lettori di Aria sottile sarebbero sorpresi di sapere che ha fatto altre scalate dopo essere tornato dalla drammatica spedizione sull’Everest.
Beh, sono tornato dall’Everest con dei seri dubbi sull’intera faccenda delle scalate, ma sono molto importanti per me. Smetterò di scrivere prima di smettere con l’alpinismo. Ho avuto un invito a fare delle scalate con il migliore e andare in un posto fantastico con queste bellissime, enormi pareti di granito che sporgono dal ghiaccio che nessuno ha mai scalato prima. È un’opportunità che capita una volta nella vita, e io l’ho colta. Ho preso l’impegno con un po’ d’ansia e quando sono partito avevo ancora più ansia ma alla fine è stato uno dei miglior viaggi che abbia mai fatto. È stato tranquillo, la scalata era il tipo di scalata che so fare – granito ripido, verticale, sporgente. Non c’era nulla sopra gli 11000 piedi.

Qual è stata la reazione dei suoi familiari e amici alla notizia che avrebbe fatto altre scalate dopo l’Everest?
Capirono. Ma per mia moglie, e non me l’ha detto finché non sono tornato, era più difficile accettare questa scalata rispetto a quella dell’Everest. Sull’Everest potevo chiamarla con il telefono satellitare, nell’Antartide non ci sono comunicazioni per sei settimane. E sembrava un’escalation: prima l’Everest, poi l’Antartico...

Come spiegherebbe a una persona qualunque cosa è così affascinante dell’alpinismo da valere il rischio?
Mi affascina perché mi importa. A differenza del resto della vita, quello che fai ti interessa davvero e non puoi permetterti di incasinarti. Le tue azioni hanno delle conseguenze reali. Devi essere sempre molto attento e concentrato e questo dà soddisfazione. Senza rischio questo non succederebbe, quindi il rischio è parte essenziale dell’alpinismo ed è difficile per alcune persone capirlo. Non ci sono giustificazioni quando le cose vanno male e le persone muoiono. Più grande è il rischio, più grande è il prezzo: capita anche nella vita, ma nell’alpinismo questo è certamente vero. È come una partita a scacchi che coinvolge tutto il corpo e porta in posti bellissimi.

Quali sono le altre attività che ama, oltre all’alpinismo e alla scrittura?

Mi piace stare all’aria aperta, sui monti o nel deserto, e piace anche a mia moglie. Questa è una delle cose che cementa il nostro rapporto. Faccio snowboard, leggo e scrivo. Non sono socievole. Non ho molti amici, perché sto molto via, e quando sono a casa voglio stare con mia moglie e sono felice quando sto da solo per un lungo periodo.

Quali sono gli scrittori che ammira di più?
Ce ne sono molti. Mi è sempre piaciuto Updike. Il mio romanzo preferito di Updike, non uno dei più conosciuti, è A Month of Sundays. Mi sono sempre piaciuti Joan Didion, E. Annie Proulx, Charles Bowden, David Roberts, Lorrie Moore. Probabilmente leggo più la narrativa che la saggistica, non so perché.
Leggo ad esempio un bel romanzo magico e soprannaturale come The Lives of the Monster Dogs e funziona: sembra ridicolo ma è per me fantastico.

Non ha portato nessun romanzo con lei sull’Everest?
Ho portato Infinite Jest perché mi piace molto David Forster Fallace ma è stato impossibile leggere al campo base. Il mio cervello non ci riusciva. I corrieri portavano vecchie copie del Time o del Newsweek al campo base, ma non avevo voglia di leggere le notizie; ero concentrato esclusivamente sulla scalata.

Come ha fatto a prendere appunti dettagliati e ricordare così tante cose durante quella esperienza straziante?
La mia memoria è inattendibile, ma come giornalista sono disciplinato e penso che ci voglia molto lavoro per far bene le cose: così mi sono dato delle regole. Ho riempito nove taccuini. Avevo un taccuino grande su cui scrivevo ogni giorno e ogni notte, registrando quello che osservavo. Ne avevo uno piccolo da reporter che portavo con me durante la scalata, e ogni volta che mi fermavo per riposare o per bere un bicchiere d’acqua, lo tiravo fuori dalla mia tasca e scrivevo. Avevo una di quelle penne che scrivono anche sotto lo zero e ha funzionato. Prendevo appunti come i fotografi scattano fotografie. Registri tutto perché non sai mai cosa apparirà inattendibile quando tornerai giù. E non mi preoccupo di come sta andando la storia e di come suonerà, cerco solo di registrare, perché se hai dei pregiudizi e se stai cercando una certa cosa, finirai per perdere le cose importanti. L’unica volta che non ho preso appunti è stato il giorno che siamo arrivati in cima alla montagna. Ho provato a 27.600 piedi quando ho raggiunto “The Balcony” alle 5:30 del mattino ma gli appunti erano illeggibili e non avevano senso perché il mio cervello non funzionava. Non ho iniziato a prendere appunti fino alle sei del mattino dell’11 maggio quando Stuart Hutchinson mi ha svegliato. Quindi c’è un periodo, il più importante, in cui non ho preso appunti. L’ho ricostruito da moltissime interviste a tutte le persone che erano lassù e, come sai, ho detto cose sbagliate. Non puoi fidarti della tua memoria, è una questione di rimandi e di avvalorare. E anche adesso i lettori più attenti si accorgeranno che la linea temporale non è molto precisa. Tutti quelli che erano lassù sono d’accordo nel sostenere che il tempo è la cosa più ambigua, sfuggente.

Scrivere è stato catartico?
Credo che lo sarà, eventualmente. Non lo è stato a quel tempo, è stato duro e molto doloroso. Non è il modo in cui scrivo di solito. Scrivo per molte ore ma sono lentissimo e soffro del blocco dello scrittore. Qualche volta lavoro su una singola frase per due o tre giorni. Non ho avuto questo lusso stavolta, ho dovuto darci dentro. Avevo 80 o 90 giorni di scrittura e c’erano circa 88.000 parole nel libro. Sapevo di dover scrivere circa 1000 parole al giorno e ero un caso disperato, alla fine.

Cosa ne pensa del modo in cui i media hanno trattato questa storia?

I media sono riduzionisti per natura. Soprattutto la televisione, ma anche le riviste, compresa la mia, l’hanno letta come “ecco gli uomini buoni, ecco gli uomini cattivi”. E la tv ha cercato di dire “ecco la tragedia che non doveva accadere” e “Chi è da biasimare?”. È molto più complicato. Rob Hall, per esempio, è morto, e una delle sue guide e due clienti sono morti. Ma non biasimo Rob, e cerco di capire i suoi sbagli, e molti di loro nascono da motivi altruistici, ma la fine fu tragica.

Cosa spera che le persone si portino dietro dopo la lettura del libro?
Volevo più di ogni altra cosa mostrare la complessità e l’ambiguità di questa tragedia. Non è semplice, e non è semplice biasimare, e non nasce dall’avidità o dalla stupidità della ricerca del brivido o dalla caccia al trofeo, ma è molto più profondo. I motivi per le persone che scalano l’Everest sono, in un certo senso, nobili, e allo stesso tempo fuorvianti. È il desiderio di andare oltre se stessi. C’è anche molta arroganza e egoismo. Volevo che il libro fosse un solidale e fiero ritratto dei caratteri coivolti. Volevo raccontare la storia nella sua complessità. Che è quello che cerco di fare quando scrivo, ecco perché sono sempre frustrato dagli articoli delle riviste. C’è sempre una zona d’ombra nella vita, e in gran parte del giornalismo sei costretto e condensarlo nel bianco e nel nero e il grigio si dissolve. In un libro hai il lusso di sviluppare i personaggi e mostrare che le persone sono sia buone che cattive, e fanno buone cose e si incasinano.

Cosa ha pensato quando hai saputo delle morti sull’Everest quest’anno?
È stato un colpo allo stomaco, non potevo credere che fosse successo ancora. Ha fatto riaffiorare molti ricordi.

Sono persone che non hanno imparato la lezione dall’anno scorso?
Sì, assolutamente. L’Everest è per persone molto determinate e proprio perché è l’Everest le persone corrono rischi che non correrebbero su altre montagne. Ecco perché questa tragedia si ripeterà ancora e ancora. È chiamata “the death zone” per una buona ragione, è come giocare alla roulette russa.

Cosa avrebbe fatto Chris McCadless se fosse stato con lei nella spedizione sull’Everest?
Sarebbe corso via dall’Everest. Era avventuroso ma pensava che la ricchezza corrompesse. E delle persone che spendono 65.000 dollari per scalare l’Everest, avrebbe pensato che si comportanto in modo osceno. Chris era un uomo che non apprezzava le zone d’ombra e le ambiguità e si sarebbe formato subito delle opinioni precise su di noi, e ci avrebbe puniti tutti. Posso solo immaginare cosa avrebbe detto... (ride).

Lei sembra avere ancora un forte legame con Chris. Che cos’è di questa storia che la ossessiona parecchi anni dopo?
Mi identifico molto con lui, è una storia triste. Sono tornato all’autobus per la terza volta lo scorso settembre. Sono diventato un buon amico della sua famiglia, abbiamo questo strano vincolo. I suoi genitori sono venuti alla presentazione che ho fatto a Baltimora pochi giorni fa, e era la prima volta che vedevano molte di queste slide e deve essere stato difficile per loro. Molte persone sono andate da loro per dirgli quanto ammiravano Chris, è stato molto toccante. È molto strano per me che non ho mai conosciuto Chris; ho scritto questo libro su di lui e i suoi genitori mi hanno ringraziato per aver spiegato alcuni aspetti di lui che non avevano mai conosciuto, ma io non l’ho mai incontrato. Ai reading ad Atlanta e Nashville, la gente venne a dirmi essere andati al college con Chris a Emory e di averlo conosciuto. E è stato molto strano.

L'intervista è stata concessa da Jon Krakauer a Larry Weissman per la rivista letteraria Bold Type.
Traduzione di Claudia Spadoni
 
Ho letto aria sottile e into the wild. Krakauer scrive molto bene e la sua ricostruzione sembra molto attendibile. Mi piace.piaceri
 
l'intervista è del gennaio 2008.
L'intera vita di Krakauer è affascinante: da semplice operaio e appassionato della vita all'aria aperta, comincia l'attività di scalatore per semplice passione.
Documentando la sua passione in articoli di riviste comincia l'attività di scrittore e giornalista, coltivando la sua passione e documentandola passa al professionismo. Arriva poi alle inchieste "nelle terre estreme" ("into the wild") e "Aria sottile" sempre documentatissimo e inappuntabile.
E anche che è famoso rimane lo stesso krakauer di sempre.
 
Oddio, proprio inappuntabile non direi: con "Into thin air" pare si sia preso parecchie libertà...

La versione di Bukreev è parzialmente incoerente anche se il suo libro ha venduto parecchio. Comunque nel libro chiede scusa per ciò che aveva detto riguardo Andy Harris. Inoltre dichiara di aver voluto chiarire le cose con Boukreev ma di non esserci riuscito in tempo e sembra, almeno a me è parso così leggendo, dispiaciuto di questo.
In ogni caso la verità è sempre di chi te la racconta.
 
Aria sottile è stata una gran bella lettura, appassionante e ben documentata. Cosa poi sia realmente successo lassù lo sanno solo loro, ognuno con la propria verità in tasca.
 
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