- Parchi d'Abruzzo
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- Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise
Data: 4 gennaio 2017
Regione e provincia: Abruzzo - AQ
Località di partenza: Villetta Barrea
Località di arrivo: idem
Chilometri: quindici circa
Dislivello positivo 1360 m.
Quota max: 2080 m (meno di 100 m. sotto la cima di Rocca Chiarano).
Descrizione delle difficoltà: freddo, vento molto forte, neve fresca (10cm).
Segnaletica: buona (segnavia biancorossi de PNALM). Dov'è assente o scarsa, gli ometti di pietra aiutano.
Descrizione
Non scrivo per parlare dell'escursione in sé, che pure descriverò brevemente, ma per condividere, dopo averla metabolizzata, una sonora lezione impartitami dalla montagna. No, per fortuna non si tratta di emergenze, errori o storie di sopravvivenza. Nessun bivacco in parete nella tempesta né salvataggi miracolosi. Si tratta di quello che ho dovuto imparare dopo aver dovuto fare marcia indietro a 100 m. dalla cima. Può sembrare una descrizione esageratamente teatrale "a 100 m. dalla cima", sembra più adatta a chi è ad un passo dalla vetta di un 8000. Invece tutto si svolge sul banalissimo pendio a sud di Rocca Chiarano.
Il punto è che a volte non è tanto quello che abbiamo intorno ma quello che ci succede dentro a tracciare dei segni che possono essere molto più profondi di quanto ci si aspetterebbe, a prescindere dalla quota, dalla pendenza.
Prima di cercare di spiegarmi, due premesse. La prima: per esigenze lavorative e familiari ho un orario di ritorno a casa abbastanza fisso. Partendo da questo, individuo l'orario massimo entro il quale devo tornare indietro, devo scendere, insomma. Quell'orario tiene anche conto di un piccolo cuscinetto di mezz'ora circa, per evenienze varie (qualche foto, un caffè un po' più lungo ecc.).
La seconda premessa: numerosi problemi fisici, tra i quali ultimamente emerge una forte metatarsalgia, mi hanno portato ad acquistare delle pedule con intersuola molto morbida, che sembrano aver mitigato un po' il problema. Purtroppo queste non sono ramponabili e, sperando di trovare un po' di neve ghiacciata (finalmente),porto ramponi e picca ma devo ovviamente optare per delle pedule "classiche".
Veniamo a noi...
L'escursione è nota probabilmente a molti. Si parte da Villetta Barrea (parcheggio poco oltre il cimitero) e si segue il sent. H1 che, dopo aver costeggiato per qualche centinaio di metri il torrente, si inerpica prima lungo pendii brulli e poi si immerge nel bosco. Qui il terreno è umido e gelato e le rocce e le radici sono scivolosissime.
Questa porzione di sentiero è ripida, ma uscendo dal bosco si apprezzano bellissimi panorami sul Monte Sterpidalto, la Camosciara e tutte le catene più lontane.
Entrando ed uscendo dal bosco più volte, la temperatura cambia sensibilmente: allo scoperto il sole riesce a scaldare, ma all'ombra del bosco il gelo si fa sentire.
Abbandonato il bosco, si risale un pendio che porta infine ad un grande pianoro con uno stazzo in una bella conca. Qui la neve comincia ad essere un problema. Sono circa 10 cm, caduti il giorno prima, probabilmente gelati nella notte ma ora fusi al sole. Ne risulta uno strato scivolosissimo che si compatta sotto il piede non per creare portanza bensì per accentuare la scivolosità del terreno.
Purtroppo è già da un po' che la metatarsalgia al piede sinistro comincia a farsi sentire. È un campanello d'allarme perché solitamente si presenta in discesa, quasi mai in salita.
Il dolore si somma al terreno reso pesante dalla neve così stranamente farinosa, quasi come fosse caduta da qualche minuto e non da ieri. Ogni passo che faccio affonda prima di una decina di cm e, al momento di spingere per avanzare, scivola penosamente rallentandomi ed aumentando la fatica.
Proseguo comunque aggirando sulla sinistra lo stazzo per cominciare a risalire gli ultimi pendii che mi porteranno sulla spalla di Rocca Chiarano. Il pianoro e le prime pendici sono rotti da una serie di piccoli saliscendi e muraglie che proteggono abbastanza dal vento. Guardando la cima, però, si vedono grandi mulinelli di neve strappata alla montagna dalle poderose raffiche delle quali, per ora, sento solo il rumore.
È appena superata la quota di una prima piccola cresta che la raffica mi schiaffeggia. È incredibile come la relativa calma dello stazzo si trasformi in un vento che ti permette a fatica di star dritto. Sono a circa 1850 m. di quota, circa 300 m sotto la cima. Mi rendo conto di essere troppo lento, si sta facendo tardi. Mi si affaccia alla mente la possibilità di non arrivare in cima. Accelero più che posso, i muscoli cominciano a dolere per quel continuo scivolare. Provo a mettere i ramponi, sperando di guadagnare un pò di presa. Niente. Le punte penetrano facilmente la poca neve e trovano il pendio sassoso. Se è possibile, è ancora più faticoso stare in piedi perché le punte di metallo sulle pietre mi provocano continui squilibri e piegano le caviglie. Tolgo nervosamente i ramponi, con le mani rosse ed il sudore che mi si gela addosso per il vento.
A 2080 m. di quota guardo l'orologio: sono oltre il tempo limite. Ho consumato anche i 30' di "riserva". Capisco che la cima è andata. La vedo vicinissima. Potrei chiamare casa ed avvisare che arriverò un'ora più tardi. Niente di grave, solo qualche disagio facilmente superabile. Ma mi dico che sarebbe come barare. Non ce l'ho fatta. Punto. Avrei potuto farcela, non si trattava di un'impresa atletica. Eppure non ce l'ho fatta.
Mi inginocchio dietro un masso per cambiarmi e bere un po' di caffè del thermos, che nella tazza diventa freddo in un attimo. Mangio un po' di formaggio. Richiudo lo zaino. Mi alzo, riparto. In discesa.
Ho il morale a terra. Mi ripeto le solite cose già dette in situazioni analoghe: "la montagna è lì, ci ritorno presto". Ma le altre volte era diverso: era il maltempo, o il pericolo, o le condizioni della neve a farmi decidere di tornare indietro, seppur con il magone. Stavolta no, era fattibile, ma io non ce la facevo.
Tornato allo stazzo, bevo, mangio qualcos'altro e scendo stavolta per il sent. H2. Almeno farò un percorso diverso.
Entro infatti in una porzione di bosco bellissima.
All'uscita del quale, su di un colle, vedo passare un branco di una quarantina di cervi.
Purtroppo è già dai primi passi in discesa che il piede sinistro mi duole sempre più. Dopo poco è difficile non zoppicare. E mancano 900 m. di dislivello.
Il resto della discesa, nonostante la bellezza dei luoghi, è caratterizzato da fitte ad ogni passo. Ed i passi da fare fino alla macchina sono davvero tanti. L'altimetro impietoso mi ricorda quanto siano pochi i metri di quota persi dall'ultima volta che l'ho guardato.
Non so se vi sia mai capitato: un dolore forte, per molto tempo, altera un po' la percezione delle cose. Mi ritrovo anche a pensare che mi verrebbe da piangere per quanto è forte il dolore, ma non posso farlo perché sarebbe disdicevole: cosa penserebbe di me il capo branco dei cervi che sono sotto di me?
Rido di me, dei pensieri stupidi che faccio e dello stato penoso in cui cammino.
Arrivo alla macchina svuotato, abbattuto. Vinto. Mi dico che non andrò più in montagna. Basta. Ci penso per tutto il viaggio di ritorno.
Ero da solo. Ora lo scrivo qui, forse per raccontarlo a qualcuno. O forse per raccontarlo a me stesso di nuovo.
E mi torna la voglia di salire. Di sudare, soffrire. Per arrivare in cima. Perché?
Perché si.
Grazie per la pazienza.
Ciao
Regione e provincia: Abruzzo - AQ
Località di partenza: Villetta Barrea
Località di arrivo: idem
Chilometri: quindici circa
Dislivello positivo 1360 m.
Quota max: 2080 m (meno di 100 m. sotto la cima di Rocca Chiarano).
Descrizione delle difficoltà: freddo, vento molto forte, neve fresca (10cm).
Segnaletica: buona (segnavia biancorossi de PNALM). Dov'è assente o scarsa, gli ometti di pietra aiutano.
Descrizione
Non scrivo per parlare dell'escursione in sé, che pure descriverò brevemente, ma per condividere, dopo averla metabolizzata, una sonora lezione impartitami dalla montagna. No, per fortuna non si tratta di emergenze, errori o storie di sopravvivenza. Nessun bivacco in parete nella tempesta né salvataggi miracolosi. Si tratta di quello che ho dovuto imparare dopo aver dovuto fare marcia indietro a 100 m. dalla cima. Può sembrare una descrizione esageratamente teatrale "a 100 m. dalla cima", sembra più adatta a chi è ad un passo dalla vetta di un 8000. Invece tutto si svolge sul banalissimo pendio a sud di Rocca Chiarano.
Il punto è che a volte non è tanto quello che abbiamo intorno ma quello che ci succede dentro a tracciare dei segni che possono essere molto più profondi di quanto ci si aspetterebbe, a prescindere dalla quota, dalla pendenza.
Prima di cercare di spiegarmi, due premesse. La prima: per esigenze lavorative e familiari ho un orario di ritorno a casa abbastanza fisso. Partendo da questo, individuo l'orario massimo entro il quale devo tornare indietro, devo scendere, insomma. Quell'orario tiene anche conto di un piccolo cuscinetto di mezz'ora circa, per evenienze varie (qualche foto, un caffè un po' più lungo ecc.).
La seconda premessa: numerosi problemi fisici, tra i quali ultimamente emerge una forte metatarsalgia, mi hanno portato ad acquistare delle pedule con intersuola molto morbida, che sembrano aver mitigato un po' il problema. Purtroppo queste non sono ramponabili e, sperando di trovare un po' di neve ghiacciata (finalmente),porto ramponi e picca ma devo ovviamente optare per delle pedule "classiche".
Veniamo a noi...
L'escursione è nota probabilmente a molti. Si parte da Villetta Barrea (parcheggio poco oltre il cimitero) e si segue il sent. H1 che, dopo aver costeggiato per qualche centinaio di metri il torrente, si inerpica prima lungo pendii brulli e poi si immerge nel bosco. Qui il terreno è umido e gelato e le rocce e le radici sono scivolosissime.
Questa porzione di sentiero è ripida, ma uscendo dal bosco si apprezzano bellissimi panorami sul Monte Sterpidalto, la Camosciara e tutte le catene più lontane.
Entrando ed uscendo dal bosco più volte, la temperatura cambia sensibilmente: allo scoperto il sole riesce a scaldare, ma all'ombra del bosco il gelo si fa sentire.
Abbandonato il bosco, si risale un pendio che porta infine ad un grande pianoro con uno stazzo in una bella conca. Qui la neve comincia ad essere un problema. Sono circa 10 cm, caduti il giorno prima, probabilmente gelati nella notte ma ora fusi al sole. Ne risulta uno strato scivolosissimo che si compatta sotto il piede non per creare portanza bensì per accentuare la scivolosità del terreno.
Purtroppo è già da un po' che la metatarsalgia al piede sinistro comincia a farsi sentire. È un campanello d'allarme perché solitamente si presenta in discesa, quasi mai in salita.
Il dolore si somma al terreno reso pesante dalla neve così stranamente farinosa, quasi come fosse caduta da qualche minuto e non da ieri. Ogni passo che faccio affonda prima di una decina di cm e, al momento di spingere per avanzare, scivola penosamente rallentandomi ed aumentando la fatica.
Proseguo comunque aggirando sulla sinistra lo stazzo per cominciare a risalire gli ultimi pendii che mi porteranno sulla spalla di Rocca Chiarano. Il pianoro e le prime pendici sono rotti da una serie di piccoli saliscendi e muraglie che proteggono abbastanza dal vento. Guardando la cima, però, si vedono grandi mulinelli di neve strappata alla montagna dalle poderose raffiche delle quali, per ora, sento solo il rumore.
È appena superata la quota di una prima piccola cresta che la raffica mi schiaffeggia. È incredibile come la relativa calma dello stazzo si trasformi in un vento che ti permette a fatica di star dritto. Sono a circa 1850 m. di quota, circa 300 m sotto la cima. Mi rendo conto di essere troppo lento, si sta facendo tardi. Mi si affaccia alla mente la possibilità di non arrivare in cima. Accelero più che posso, i muscoli cominciano a dolere per quel continuo scivolare. Provo a mettere i ramponi, sperando di guadagnare un pò di presa. Niente. Le punte penetrano facilmente la poca neve e trovano il pendio sassoso. Se è possibile, è ancora più faticoso stare in piedi perché le punte di metallo sulle pietre mi provocano continui squilibri e piegano le caviglie. Tolgo nervosamente i ramponi, con le mani rosse ed il sudore che mi si gela addosso per il vento.
A 2080 m. di quota guardo l'orologio: sono oltre il tempo limite. Ho consumato anche i 30' di "riserva". Capisco che la cima è andata. La vedo vicinissima. Potrei chiamare casa ed avvisare che arriverò un'ora più tardi. Niente di grave, solo qualche disagio facilmente superabile. Ma mi dico che sarebbe come barare. Non ce l'ho fatta. Punto. Avrei potuto farcela, non si trattava di un'impresa atletica. Eppure non ce l'ho fatta.
Mi inginocchio dietro un masso per cambiarmi e bere un po' di caffè del thermos, che nella tazza diventa freddo in un attimo. Mangio un po' di formaggio. Richiudo lo zaino. Mi alzo, riparto. In discesa.
Ho il morale a terra. Mi ripeto le solite cose già dette in situazioni analoghe: "la montagna è lì, ci ritorno presto". Ma le altre volte era diverso: era il maltempo, o il pericolo, o le condizioni della neve a farmi decidere di tornare indietro, seppur con il magone. Stavolta no, era fattibile, ma io non ce la facevo.
Tornato allo stazzo, bevo, mangio qualcos'altro e scendo stavolta per il sent. H2. Almeno farò un percorso diverso.
Entro infatti in una porzione di bosco bellissima.
All'uscita del quale, su di un colle, vedo passare un branco di una quarantina di cervi.
Purtroppo è già dai primi passi in discesa che il piede sinistro mi duole sempre più. Dopo poco è difficile non zoppicare. E mancano 900 m. di dislivello.
Il resto della discesa, nonostante la bellezza dei luoghi, è caratterizzato da fitte ad ogni passo. Ed i passi da fare fino alla macchina sono davvero tanti. L'altimetro impietoso mi ricorda quanto siano pochi i metri di quota persi dall'ultima volta che l'ho guardato.
Non so se vi sia mai capitato: un dolore forte, per molto tempo, altera un po' la percezione delle cose. Mi ritrovo anche a pensare che mi verrebbe da piangere per quanto è forte il dolore, ma non posso farlo perché sarebbe disdicevole: cosa penserebbe di me il capo branco dei cervi che sono sotto di me?
Rido di me, dei pensieri stupidi che faccio e dello stato penoso in cui cammino.
Arrivo alla macchina svuotato, abbattuto. Vinto. Mi dico che non andrò più in montagna. Basta. Ci penso per tutto il viaggio di ritorno.
Ero da solo. Ora lo scrivo qui, forse per raccontarlo a qualcuno. O forse per raccontarlo a me stesso di nuovo.
E mi torna la voglia di salire. Di sudare, soffrire. Per arrivare in cima. Perché?
Perché si.
Grazie per la pazienza.
Ciao
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