Come tutti, parlo per me, e continuo a pormi domande.
Non mi rende soltanto triste venire a conoscenza di questi episodi,
@walterfishing , ma fa crescere la mia già infinita rabbia. Soltanto due mesi fa, qua, a Pisa, c'è stato un episodio simile. Francesco, 23 anni, studente universitario, scomparso per un solo giorno, è stato trovato carbonizzato poco fuori città, in campagna, dove pure io ero solito andare a camminare. L'ha trovato una ragazza, passeggiando.
Le indagini non si sono ancora concluse, pertanto l'ipotesi dell'omicidio resta possibile, ma se si trattasse veramente di un caso di suicidio, mi chiedo: quali pensieri possono farti soffrire così tanto da spingerti a darti fuoco con le tue stesse mani? Perché morire? Perché nessuno ha potuto aiutare questo ragazzo?
Quando avevo la sua età e facevo l'università, anche io stavo male, prima di mollare gli studi e cominciare il mio percorso terapeutico. Ho pensato spesso al suicidio, a volte l'ho desiderato così intensamente da non riuscire a vedere altro, ma non ho mai commesso alcun gesto che potesse realizzare quel vigliacco desiderio. La morte è inutile e stupida, se si ha la possibilità di lottare. Non sto dicendo che chi decide di togliersi la vita sia stupido: il gesto lo è ed è pure facile, arrendersi ai propri spettri e lasciarsi vincere. Qualcosina a riguardo credo, e spero, di saperla, dopo anni di terapia, ma sono sicuro di un solo fatto: il nemico è la solitudine.
Leggo delle eterne diatribe fra giovani, vecchi, differenze generazionali, benessere economico, libertà e imposizioni... Sono sicuramente fattori di rilievo, argomenti su cui poter discutere per giorni interi senza tuttavia ottenere una sola, unica parola utile a comprendere la sofferenza di chi nella propria mente contempla il suicidio.
Per quello che riesco a vedere coi miei occhi, il problema resta sempre la solitudine. Se c'è una differenza fra il passato recente e il presente, oggi, che abbiamo tutto, troppo e così tanti strumenti per poter comunicare e relazionarsi con gli altri, ci sentiamo sempre più soli. In pochi anni le cose sono cambiate drasticamente: chi si parla più, oggi? Forse, voi "vecchi" cresciuti senza Internet e la televisione sapete cosa significa avere lo sguardo libero dal fiume di immagini che straripa da ogni poro digitale, sapete cosa significhi divertirsi con poco, annoiarsi e godere anche della noia, ma soprattutto avere una conversazione, parlare, stare in silenzio. Guardate che non è una cosa banale: chi nasce e cresce nel frastuono della modernità, fra i rumori del traffico, le continue e ossessionanti informazioni che ci trasmettono ogni secondo, in televisione, in radio, sul web, le inutile valanghe di parole che ci scambiamo per non sentire il fastidio del silenzio, può sviluppare facilmente una concezione patologica del dialogo. Già fra i miei coetanei (sono del '93) è difficile trovare qualcuno che sappia veramente dirti "Come stai?", che sappia tenere una conversazione, che ti sappia parlare con sincerità, e fra questi mi includo pure io, perché la sincerità è un esercizio, una conquista quotidiana. Non si può parlare di "problemi mentali" e fra questi includo la depressione, a meno che non siano presenti lesioni o malformazioni di natura organica, senza parlare di problemi di comunicazione. Di cosa parliamo, ormai? Cosa ci diciamo veramente? Come ci si può sentire legati a qualcuno, perfino a se stessi, se non si è in grado di comunicare sinceramente? Ci raccontiamo storie, piccole o grandi, ogni giorno, storie che si possono depositare come polvere, che si accumula, si consolida, si stratifica e può formare addirittura la roccia, se non si possiedono gli strumenti per rimuoverla, per combatterla. Come si può acquisire il senso di sé, riconoscere se stessi e non sentirsi più soli, nella folla, o nel silenzio della propria stanza, se non si è capaci di dialogare?
Secondo me la solitudine è un problema di comunicazione, e la comunicazione è un fatto sociale che ci riguarda tutti. C'è timore, riserbo e una sorta di "egoismo collettivo", uno scudo mentale che ci difende dal "brutto", dal malessere, dal dolore, soprattutto altrui, se non quando è spettacolarizzato in un talk show, che ci impedisce di affrontare queste tematiche e darci la possibilità di entrare perlomeno in sintonia con chi ne soffre, se non siamo in grado di capirle. Diventa facile abituarsi alle distrazioni che ci vengono proposte e a quelle che scegliamo coscientemente per non sentire il malessere, al "rumore" di sottofondo che ricopre ciò che sentiamo e che magari non ci piace sentire, vuoi perché se ne ha paura, vuoi perché è ancora un taboo parlare di sofferenza. Un adolescente, o giovane adulto, che si toglie la vita non è soltanto il gesto disperato di una persona sofferente: è il fallimento collettivo del modo che abbiamo sviluppato di stare assieme.