Tentativo al Gran Zebrù: racconto di una resa felice

"Andiamo in tenda, dai" cercavo di convincere il socio, che sulle prime sembrava anche mediamente d'accordo.

In tenda avremmo risparmiato (un sacco di soldi), non avremmo dovuto sottostare agli orari dei rifugi, non avremmo dovuto stare in camera con gente che russa, non avremmo dovuto fare la fila la mattina per pisciare in bagni sporchi, non avremmo insomma contribuito alla volgare mercificazione della montagna.

Ancora meglio, molto meglio: avremmo dormito in mezzo alla natura, non nel cemento. Avremmo avuto un'esperienza molto più intima e genuina. E avremmo potuto dire a noi stessi di aver fatto la nostra avventura "in stile alpino". Tutto con le nostre forze.

Il meteo, tuttavia, ci suggerisce di fare la gita lunedì e martedì, piuttosto che martedì e mercoledì, e il socio lunedì non può partire presto. Ci tocca scegliere il rifugio.

La cosa ha avuto i suoi lati positivi, in primis ho potuto fare la gita con un solo giorno di ferie, invece di due. In secondo luogo, arrivato là - nel punto in cui avrei voluto mettere la tenda - mi sono accorto che probabilmente non sarei stato sufficientemente bene equipaggiato per farlo. Non ho ancora un sacco a pelo sufficientemente caldo per dormire su un ghiacciaio a tremila metri a metà giugno, né picchetti adeguati per installare la tenda sulla neve. Inoltre avevo ancora nelle gambe la stanchezza della gita fatta domenica, che doveva essere una tranquillissima passeggiata con la morosa e invece - sarà stato il caldo! - mi ha sfinito nonostante il dislivello risibile e nonostante avessi già una gamba bene allenata nelle settimane precedenti. C'è da dire che facendolo in tenda saremmo partiti la mattina del primo giorno, quindi ci sarebbe stato più tempo di salire con (molto) più peso... non lo so. Fatto sta che siamo andati in rifugio, abbiamo speso tantissimi soldi, ci siamo semplificati la vita.

La mattina della partenza vado in ufficio a lavorare mezza giornata, poi prendo il treno per Brescia. Mi sveglio e mi trovo Claudia di fianco, bellissima.
Da quando c'è lei vivo la montagna in un modo diverso. Non sono mai stato un pazzo incosciente, però sapere che c'è lei a casa mi fa aumentare la prudenza. Forse è un bene, purché la cosa non mi generi tensioni inutili, come è capitato in un'altra occasione.

La tensione utile ti fa valutare serenamente di tornare indietro. Quello è buon senso.

Quella inutile si chiama paura, invece. Ti crea una pericolosa perdita di controllo in situazioni delicate, che affrontate con calma avrebbero una soluzione semplicissima, e con la paura diventano terribili.
La paura ti fotte. Sempre.

Salgo verso il rifugio con una sensazione di tensione che sta a metà tra la prima, quella sana, e l'altra, quella marcia. Più ci avviciniamo, però, e più mi tranquillizzo. Vedo la montagna dal rifugio: ce la posso fare. Il rifugista ci tranquillizza sulle condizioni. La paura passa, e resta solo la voglia di salire.

I rifugisti sono gentili, ma strani. "non serve partire prima delle quattro, però poi dovete correre". Mah, facci partire alle tre e mezza allora!
Per fortuna c'è un altro cliente che vuole partire mezz'ora prima, così il rifugista si adatta e ci prepara (ovvero, ci fa trovare) la colazione fredda e scarsa per le tre di mattina.

Il ghiacciaio del Gran Zebrù è poco crepacciato, e in questa stagione dovrebbe essere ben coperto. Ce lo hanno confermato ieri, quindi decidiamo di partire senza corda. Il socio mi convince a portare almeno l'imbrago "che almeno sanno dove attaccare il verricello, se dovessero venire a prenderti". Mi faccio convincere ed è una buona idea, visto che almeno ci posso appendere la piccozza per evitare di perderla.

La mia superficialità però si fa sentire soprattutto per quanto riguarda la mia scelta fallimentare di non portare i bastoncini.
La consideravo ormai una gita estiva, ma la stagione e la quota la rendono ancora perfettamente al confine tra lo scialpinismo e l'alpinismo e basta.
"Per il ghiacciaio uso solo la piccozza, ne ho presa una bella lunga, andrà bene. Inutile l'ingombro e il peso di due bastoni".
Invece la parte iniziale per arrivare fino al famoso "collo di bottiglia" aveva talmente tanta neve, e molle, che oltre alle ciaspole avrei fatto bene a portarli, i bastoni. Invece ho dovuto usarne uno del socio, che così è rimasto monco di uno, sia a salire che a scendere.

Dev'essere perché è da molto che ho perso l'entusiasmo dilantiante per l'alpinismo. Una volta studiavo dispense, facevo pratica di corde, nodi, manovre. Non dimenticavo mai niente, studiavo bene gli itinerari nel dettaglio. Preparavo gli schizzi di rotta a casa, confrontando più cartine. Non mi sfuggiva un dettaglio.

Da qualche tempo mi sono rilassato, troppo. Se devo andare a fare un'avventura in montagna non posso permettermelo. Infatti sto pensando regolarmente di mollare, per dedicarmi ad altre attività parimenti gratificanti ma che richiedono meno preparativi e con pericoli oggettivi minori.

Lo dico ogni volta, poi regolarmente il socio mi chiama e mi faccio fregare.

Morale, alla fine al canalino ci arriviamo. Ci sembra di andare piano, perché il signore che è partito pochi minuti prima di noi è già sensibilmente avanti. È abbastanza in là con gli anni, beve come un ubriacone, ma viaggia forte! In realtà stavamo andando a un buon passo, considerate le pochissime ore di sonno (meno di due, visto che ho fatto parecchia fatica ad addormentarmi). Siamo in orario.

Il canale non sembra nemmeno così tremendo, tant'è che ci accorgiamo di essere in quello che avrebbe dovuto essere il punto critico solo a due terzi del medesimo. "Vedi la spalla lassù?" "Mi sembra di sì". "E allora mi sà che il canale è questo!".
Varcata la spalla, ci troviamo al sole. Qui le cose cambiano drasticamente. La salita non molla minimamente di ripidità, anzi.
In compenso, molla la neve. Da quel lato il sole ha già iniziato a scaldare e a rendere la neve meno solida. A rendere critica la cosa c'è il fatto che una scivolata, da quella parte, non avrebbe permesso di fermarsi in un tempo accettabile, e si finiva talmente lontani che nemmeno si capiva dove si sarebbe arrivati.
In altre parole, se fossi scivolato lì, probabilmente sarei morto.
Il canale era un'altra cosa: non solo era molto più facile da percorrere, perché in ombra: si vedeva la fine qualche decina di metri sotto, il che era parecchio rassicurante.
Di là, no.

Morale, decido di tornare indietro. "Se la neve mi lascia così incerto ora, figuriamoci al ritorno, tra un paio d'ore almeno, e in discesa, dove è sempre e comunque più difficile".
Cambio idea quattro volte in un minuto. "no, vado". "no, scendo. "dai, *****, ce la posso fare". "fanculo, scendo". È quella definitiva. Il socio decide di continuare, c'è un'altra persona lungo la via, e procede.
Tornando penso alla mia fidanzata, e canticchio. Pazienza per la cima, sono contento di tornare a casa. Mi piace camminare sul ghiacciaio coperto, e mentre scendo provo a lasciarmi cadere lungo il pendio dolce (e una volta anche in fondo al camino) per imparare un po' di auto-arresto con la piccozza. Funziona. Emozionante e divertente.

Mi rendo conto che non solo ho perso attenzione, insieme all'entusiasmo, ma è anche da un po' che non imparo niente, per quanto riguarda la tecnica dell'alpinismo.
Se avessi avuto una corda - assicurata alla neve con qualcosa di convincente - e qualche istruzione avrei proseguito, e avrei fatto esperienza con il movimento sulla neve marcia, da riutilizzare in altre occasioni. Ma avevamo deciso di non portarla, quindi è andato bene rientrare.
Mi viene voglia di fare altri corsi, di approfondire la mia tecnica per imparare a gestire queste situazioni delicate. Il socio poi mi racconterà che ha avuto proprio un'esperienza come questa, e l'ho invidiato un po'. Forse se avessi avuto anche io un'opportunità del genere, ora mi sarei sentito più confidente e sarei andato avanti, consapevole di saper camminare su quella neve così calda e così pendente.

Così, penso di fare altri corsi, di investirci di nuovo. Poi mi rendo conto che non è realistico, con tutti gli hobby che ho. La bicicletta, il trekking, l'arrampicata. E la musica. E la casa da sistemare. Irrealistico, temo. Ma chissà, che non mi capiti qualche occasione. Ogni volta che posso imparare qualcosa mi getto a capofitto.

Arrivo al rifugio mentre penso le cose qui sopra, miste a un velo di preoccupazione per il mio compagno di salita. Mi faccio prestare un binocolo e tengo d'occhio il percorso, mentre metto ad asciugare le ciaspole, i ramponi, e i piedi.

Passa un po' di tempo prima che io veda una sagoma umana all'inizio del canale, ma non riesco a capire chi sia. Sta ferma parecchio tempo, poi scende. Sono abbastanza convinto che sia il mio socio. A questo punto inizio a preoccuparmi per l'altro signore, visto che non è giovanissimo. Dopo un po' vedo scendere anche l'altra persona, e mi sembra che invece sia il mio compare. Poi riconosco la sua sciata e me ne convinco definitivamente.

Torniamo stanchi, stravolti. Suggerisco di prendere un gelato a Olcio, ma faccio casino con le mappe e quando me ne accorgo, realizzo che avremmo dovuto tornare indietro perdendo almeno mezz'ora. Mi tocca ri-convincere il compare a cambiare idea e me ne rammarico, ma è stata una scelta sensata, visto che poi abbiamo trovato solo poco traffico in tangenziale. Altrimenti sarebbe stato un disastro.

Morale: sono partiti tanti soldi, mi sono stancato, e ho imparato poco. Ma sono stato comunque bene, ho preso aria e mosso le gambe. E sono tornato a casa intero, quindi ho vinto.
 
Grazie...

Grazie di aver condiviso i tuoi pensieri, considerazioni che ritengo piuttosto intimistiche, per via della forma e del contenuto.
Credo siano pensieri che molti di coloro che vanno in montagna facciano spesso, ma che non altrettanto spesso vengono condivisi per paura di essere guardati come "non-eroi".
"Di eroi", però, "sono pieni i cimiteri", come mi ricorda spesso il mio socio di mille escursioni.
Una "resa felice", appunto, quando la paura nei confronti della montagna diventa "rispetto", è spesso ancor più appagante di una salita portata necessariamente all'estremo, pur consci di aver corso dei rischi elevati di non tornare a casa.
Buona vita,

Mario
 
Grazie del tuo commento! Un pensiero laterale che ho fatto è identico al tuo. "Di gente che finisce nella cronaca perché muore in montagna ce n'è già abbastanza, io sono proprio contento di rimanere anonimo". ;)
 
Non abbiamo portato la corda perché nella parte di ghiacciaio non serviva (oggettivamente: i crepacci sono pochissimi sulla vedretta del Gran Zebrù, ed erano tutti ben chiusi) mentre nella parte alta non sarebbe servita a niente, senza piazzare protezioni nella neve - che non avevamo. Il volo di uno dei due avrebbe probabilmente trascinato con sè l'altro, e in questo caso la corda avrebbe duplicato la tragedia invece di prevenirla.
L'alternativa c'era: piazzare la piccozza come corpo morto e usare quello come sistema di assicurazione. Ma sarebbe stato un approccio troppo lento per quelle condizioni, dove la velocità era critica. Per fortuna il mio compare, più forte di me, è tornato presto: alle nove del mattino era già fuori dalla zona critica. Metterci qualche ora in più avrebbe significato fare sci nautico sul precipizio. :)
 
Bella testimonianza, molto intima e sentita.
Adoro quella montagna, non ci sono mai salito (non ho esperienza di ghiacciaio), ha una forma che impone rispetto solo per guardarla.
Solo per curiosità, il rifugio è lo stesso in cui si pernotta per la salita all'Ortles (Rif. Payer)?
 
Grazie del tuo commento!

La via normale parte dal rifugio Pizzini. Sono una minoranza, ma ci sono anche alpinisti che la fanno in tenda (come avrei preferito, almeno idealmente) salendo di qualche centinaio di metri sopra al rifugio stesso, in direzione del canale. Ciao :)
 
SEI. Sei morti oggi, due cordate da tre. Sono addolorato per quei sei. Se penso che sono stato a un passo dalla stessa fine mi vengono i brividi, e invece sono qui a scrivere e a pianificare altre avventure.
Scusate se lo scrivo in modo grottesco, ma

Rinunciare è una figata pazzesca, *****!
 
Ancora altre 2 tragedie..la cosa che mi da' più dispiacere è che le vittime sono ragazzi molto giovani (22-26-30-32-43-45 anni)..Un mio modestissimo pensiero va a loro
 
Grosso dubbio....ma la mia idea è che se il dubbio ti viene è meglio tornare indietro. Non so, sarà sesto senso o cosa ma a volte è meglio ascoltare quell'innato "istinto di conservazione".

Un pensiero a quelli che se ne sono andati, certamente troppo presto ma almeno facendo ciò che amavano.
 
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